“It is is better to know one book intimately than a hundred superficially.”
Donna Tartt
Esistono opere che si consumano come pacchi di chewing gum: le si mastica e rimastica assorbendone il sapore sulla lingua, per poi gettarle nel sacco dell’indifferenziata una volta che il loro effetto è terminato, lasciando il cavo orale ingessato, intorpidito dagli zuccheri che si sono ridistribuiti nel palato sino a coibentarlo come un sottotetto. Ogni volta che ne incontriamo una, la sensazione di godimento che ci forniscono termina con la loro fruizione o poco più in là, e mai ci sogneremmo di goderne una seconda volta, proprio come non ci sogneremmo mai di recuperare la gomma masticata dal sacco dell’indifferenziata, svolgerla dalla carta entro cui l’avevamo racchiusa prima di gettarla e rimetterla in bocca. Queste opere sono molto spesso tutt’altro che di bassa qualità, eppure non riescono a diventare per noi incisive, non scuotono il desiderio di approfondimento che tanto contrassegna l’appassionato, che come un ingegnere o un mastro di bottega passa il tempo a smontare il meccanismo per carpirne ogni segreto. Più che di bassa qualità, è corretto dire che queste opere destano una cordiale indifferenza, perché incapaci, nella loro protocollare ingegnerizzazione, di risvegliare il nostro animo più intimo, quello che ci accomuna per impiego all’orologiaio, così attento alle leggi della fisica dell’orologio e del moto delle sue lancette quanto a quelle della tipografia del suo marchio, del materiale del suo cinturino e della durezza del suo vetro.
L’unica prescrizione che si possa saggiamente fornire a proposito di queste opere è quella di trattarle in base a ciò che esse propongono: goderne, consumarle e, come suggeriva il Poeta, più non dimandare.
Esistono poi opere che vanno smontate, rimontate, studiate, ripassate; le cui leggi dobbiamo comprendere sino ai minimi termini delle equazioni che le informano; i cui ingranaggi meritano la stessa attenzione e riverenza che si fornisce a una Musa ispiratrice, a un dio intoccabile e onnipotente, a un’Ultima Thule della nostra personale mitologia. Rinserrati come accade unicamente nei marchingegni meglio concepiti, gli ingranaggi di queste opere si muovono, all’interno della macchina, di un moto obbligato, privi di qualsiasi libertà apparente; e, proprio grazie alla coercizione che li informa, questi ingranaggi ben rinsaldati fanno girare la macchina alla perfezione proprio grazie all’assenza di controllo che essi hanno sul loro proprio movimento. L’effetto retorico che queste opere restituiscono è quello di una necessità della macchina, un incedere miracoloso anche se laico di ogni evento rappresentato, una riduzione del disordine in un mondo dominato dal caos. A differenza delle prime, di queste opere dobbiamo assaporare il succo caldo, gustarne ogni nota e inclinazione, prima di mandarle giù. La complessità e la quantità di strati, di ingredienti, di interpretazioni variabili che queste producono fanno sì che una sola fruizione non basti per coglierne ogni aspetto. Quello che siamo chiamati a fare, per nostro godimento e discernimento, è allora gustarne più assaggi e, come sommelier stacanovisti incalliti e indefessi, declinare l’utilizzo della sputacchiera, anche al costo di un ottundimento dei sensi.
Queste opere, più che semplicemente masticate, vanno gustate, studiate, colte nella loro altrimenti non riproponibile unicità: così è per il cinema, la letteratura, il videogioco, la musica e qualsiasi altra forma in cui si dia espressione del lavoro frutto dell’ingegno umano.
Rimanendo sul caso del cinema, basterebbe richiamare alla mente le parole di Martin Scorsese, convinto che un grande film non lo si possa studiare che dalla seconda visione: mentre alla prima siamo troppo impegnati a farci volutamente “prendere per i fondelli” dall’autore e dalla sua finzione artefatta, da una seconda visione in poi saremo in grado di mettere da parte la sospensione dell’incredulità e concentrarci su quell’operazione di smontaggio che tanto piace solo all’ingegnere, all’orologiaio, al bottegaio.
C’è un film che, per questioni che mi restano ignote, non fa che provocare in me questo effetto di infinito all’infinito, a ogni nuova visione. Come due specchi messi l’uno di fronte all’altro, ogni nuova visione di questa pellicola non fa che proiettarne una nuova, intrisa di un'essenza inedita, in un eterno effetto Droste che, più che proporre ogni volta una versione rimpicciolita di sé, ne genera al contrario una più grande, magnificente, che tracima dai bordi delle sue cornici.
Si tratta de Il grande Lebowski, il film che i fratelli Coen scrissero come rielaborazione del noir hard-boiled cui tanto deve la loro formazione letteraria. La pellicola dei Coen è un prodigio della sceneggiatura così ben congegnato che si potrebbe parlare di qualsiasi elemento senza il rischio di menare il can per l’aia, ma come promesso ho deciso di concentrarmi su un dettaglio che fino a questo momento non ero riuscito a cogliere, e che evidenzia una volta di più quanto non sia importante quello che dici, ma il modo unico in cui lo fai. Se, infatti, si tratta di un elemento chiaro dell’impianto narrativo del film, sono i dettagli attraverso cui questi viene architettato a renderlo pregno di significato potenziale.
Sto parlando della funzione narrativa giocata dal personaggio di Sam Elliott, il cowboy dalla voce rauca e dai baffi a spazzola che lentamente, sinuosamente, si introduce nelle vicende del Drugo.
Per farlo, però, è opportuno partire chiarendo un elemento fondamentale del cinema dei Coen, elemento che pervade tutto il loro cinema.
Nelle loro opere, i fratelli Coen partono dal presupposto che dietro l’angolo si aggiri, per ogni essere umano, una possibile beffa, un potenziale danno architettato da una forza oscura che altri non è che l’indifferenza del mondo nei nostri confronti che si ripercuote su di noi quando proviamo, con timida convinzione, a uscire dalle nostre zone di comfort. Ogni volta che un personaggio dei Coen ha un’iniziativa e dice fischi, il mondo gli risponde fiaschi. Si tratta di una lezione di pedagogia fondamentale, che i Coen rielaborano in mille forme e dandole il volto di decine di personaggi, tutti ugualmente passibili di altrettante beffe: al mondo non interessa nulla di noi, e per affermare ciò che è nostro dovremo farci strada con fatica, privi di una qualsivoglia garanzia di successo; al contrario, fallire — e venire scherniti nel fallimento — ci si addice di più, perché così è il nostro rapporto col mondo.
La domanda che consegue è se, all’interno del pantheon di pseudoeroi metropolitani, agresti o di frontiera formulato dai Coen, esista qualcuno che sfugge a questo ineluttabile destino. La risposta è un anti-climatico quanto chiarificatore nì: qualcuno c’è, ma non si vede o tende a svanire nello sfondo degli eventi.
Nel caso de Il grande Lebowski, questo potenziale trickster contemporaneo è rappresentato dal personaggio di Sam Elliott, la cui presenza non è ascrivibile a regole di condotta o narrative nitidamente definite. Sam Elliott, che gioca le veci del narratore della storia del Drugo, è un dio minore in un mondo senza dei. Pur apparendo come un narratore onnisciente, un occhio che tutto vede e tutto riporta filtrato attraverso il suo personale discernimento, Elliott è però un narratore atipico. Rispetto ai personaggio egli gioca un’altra partita, ma questa partita non si svolge sul piano di Dio, bensì su uno intermedio: come affermato dalla sua voce a inizio film (è così che si manifesta per la prima volta Elliott, come una semplice voce fuori campo, un’apparizione fonetica accompagnata da un canto malinconico e popolare), Elliott non ha mai “visto Londra”, non è mai “stato in Francia” e non ha mai “visto la regina in mutande, come dicono alcuni”: è un uomo del posto, un semplice visitatore e cronista degli eventi. Un visitatore atipico, però, che i Coen non per caso chiamano col nome di Straniero: un esule in casa propria. Eppure, se il set di ingranaggi rappresentato dal cast gioca a carte coperte e con gli occhiali da sole sul naso un’impossibile mano di poker, Elliott mira a giocare a carte con l’Altissimo — col quale a differenza degli altri sta in qualche arcano rapporto — a competere con lui e, a differenza degli altri, a non farsi beffare, come confermato dalla sua voce subito dopo: dopo aver raccontato la sua storia, afferma Elliott, egli potrà “morire con un sorriso, senza la sensazione che il buon Dio mi abbia fregato.”
Lo Straniero ha come obiettivo quello di non farsi fregare, di non farsi beffare; e, quando si parla di beffa, chiama in causa direttamente l’Onnipotente.
A differenza del Drugo, di Walter, di Maude e del milionario Lebowski, Lo Straniero non gioca a dadi col caso, perché sa in partenza che perderebbe la partita. Per vincere, sceglie l’unica alternativa: defilarsi dal gioco e, con garbo, raccontare, riportare gli eventi. Eppure la grandezza del personaggio ingegnato dai Coen non finisce qui: mentre gli altri personaggi sono ingranaggi della macchina, Lo Straniero è caratterizzato da un minimo, marginale ma incisivo spazio di manovra, tanto quanto basta da spostare l’asse del destino e incanalarlo su un altro paio di binari. Se, come si diceva, la bellezza di un ingranaggio sta, lui che libero non è, nella quantità di cose libere che consente alla macchina di fare, Lo Straniero sfugge a questa evenienza, e come l’abile schermidore segna il punto colpendo d’infilata, là dove l’intreccio della storia dà il fianco e mostra, per un istante fatale, la costola scoperta.
Elliott riappare esattamente a metà film, con isocrono splendore, a cinquantanove minuti di una pellicola che ne dura centodiciassette. E, con altrettanto scenico splendore, lo fa in tutta la magnificenza del physique du rôle fornito dalla sua figura: un mezzo busto al bancone del tavolo da bowling, a consolare uno sconsolato Drugo.
Quello che fa la differenza, nella sua seconda venuta fra i mortali, è la parabola che Lo Straniero racconta al Drugo per sollevarlo di morale: “Una volta, un tipo più saggio di me ha detto: ‘A volte sei tu che mangi l’orso e […] a volte è l’orso che mangia te’.”
Queste parole, afferma Lo Straniero, gli sono stato riferite da “un tipo più saggio di lui”. Il Drugo, mangiando noccioline e sorseggiando il suo White Russian, gli domanda se si tratta di un qualche detto orientale: la risposta dello Straniero è negativa. Dunque, chi è questa persona più saggia di lui? Chi, se non il Dio col quale Elliott prova a competere, al quale prova a sottrarsi?
La controprova si ha anche dal fatto che il detto riferito sul mangiare e farsi mangiare è inventato dallo Straniero di sana pianta, non appartiene ad alcuna parabola religiosa o culto di nessuna civiltà; si tratta di una massima che il cowboy inventa su due piedi, al solo scopo di tirar su di corda il piccolo Lebowski, eppure egli la spaccia come la massima di un oscuro saggio.
Come detto, nel cinema dei Coen ogni personaggio è un ingranaggio impossibilitato all’interno di una macchina perfetta. Per i personaggi non esiste libero arbitrio, semmai soltanto una pallida copia che prende la forma della trama degli eventi, e i personaggi provano a muoversi liberamente al suo interno, finendo però miseramente intrappolati, come mosche imbrigliate in una tela di ragno perfettamente disegnata.
Lo Straniero, pur essendo frutto della penna dei Coen al pari degli altri e quindi, a un livello superficiale, pur sempre un personaggio fittizio compartecipe degli eventi, prova a gettar scompiglio in quest’ordine costituito. Elliott c’è, ma non si vede, e ancor più sfuggenti sono gli effetti che egli produce sul resto degli eventi. L’unica lezione imparata dal Drugo, a fine pellicola, è proprio quella appresa dallo Straniero: “Alle volte sei tu che mangi l’orso e altre volte…”, dice il Drugo dopo la semifinale di bowling, proprio prima di interrompersi alla terza, definitiva apparizione dello Straniero. E il Drugo continua: “Mi chiedevo se ti avrei rivisto”, a conferma del fatto che la presenza di Elliott sia del tutto stocastica, incalcolabile nella sua incomprensibilità di fondo.
Come un elettrone inserito in una perfetta struttura atomica, di Sam Elliott possiamo vedere tutti gli effetti pur non riuscendo a misurarlo direttamente. La nostra vista, monca perché così vuole il duo demiurgo di sceneggiatori, non è in grado di coglierne lo statuto, e per capirne le funzioni e le ricadute sul piano narrativo dobbiamo affidarci ad altri strumenti. Questa caratteristica tipica del personaggio di Elliott, ostensiva dell’idea che i Coen hanno della meta-narrativa, può essere applicata per esteso a molti altri loro film: il narratore dei film dei Coen — che non sono i Coen stessi ma sempre un fattore terzo presente nelle loro storie, come un’ambra nella quale siamo costantemente immersi e di cui non possiamo renderci conto proprio perché ci siamo immersi — può essere colto solo per difetto, senza osservarlo direttamente. Questo narratore, un’equazione del caso in un mondo all’apparenza predeterminato, come lo spiraglio fra le intercapedini di un vecchio infisso si insinua nella stanza in cui si dispiega la trama, condizionando la pressione dell’intero ambiente.
Sam Elliott non siamo noi, non sono i Coen, non è neppure un dio minore; è qualcosa che sfugge a ogni controllo, è un clinamen che si introduce nella struttura e la dirotta casualmente, facendone deviare il percorso prescritto di una misura infinitesimale, quanto basta per generare, sulle grandi distanze, differenze abissali nella meta da raggiungere. L’unico, in un mondo di beffati, in grado di sfuggire alla beffa; e questo perché, a differenza degli altri ingranaggi della macchina, Elliott la beffa può riconoscerla, contingentarla, e defilarsi prima che possa intervenire e provocare un qualche effetto nocivo su di lui. Elliott sa che, per non farsi risucchiare dall’infinita gravità del buco nero in cui cadono il Drugo e gli altri, non può che defilarsi dai giochi, essere pacato spettatore ed educato cronista degli eventi, colui che li traduce dalla loro forma amorfa per noi spettatori, in modo che possiamo assimilarli in una forma digeribile. Ma, come ogni traduttore, egli è anche traditore: si insinua quel tanto che basta da insegnare al Drugo una lezione — minima, certo, ma pur sempre una lezione — traendola da una mitologia spicciola inventata di sana pianta: alle volte sei tu a mangiare l’orso, alle volte l’orso mangia te. Purché tu non ti illuda di poter scegliere quando stare dietro la barricata giusta: quel compito spetta ai due orologiai che hanno ingegnerizzato la storia.