Senza avere la bellezza non c’è alcuna ragione di vivere.
Howl, Il castello errante di Howl, 2004
All’incrocio fra la 53esima Strada e la 6a Avenue c’è un uomo con elmo e barba lunga che distribuisce quelli che sembrano vecchi depliant pentagrammati. Il suo nome è Louis Thomas Hardin, ma gli abitanti di Manhattan hanno imparato a chiamarlo con lo pseudonimo auto-affibbiatosi, quello di Moondog. Il vecchio Moondog è cieco e non si fa una doccia calda da tempo: vive nel mito del dio norreno Thor, di cui si sente eponimo legittimo al punto da simularne maldestramente il vestiario. Eppure la sua indole mansueta, più che al rombare quadrato del tuono, lo avvicina al suono sincopato del blues e del jazz: i depliant che dispensa sono in realtà spartiti, testi musicali di canoni e ballate che compone nel tempo libero, che è poi tutto il suo tempo di cantore cosmopolita. Moondog, street performer nevrastenico e indefesso, porta avanti un’idea di musica atemporale e apolide; alla chiarezza dei testi preferisce l’insondabilità dei suoni vacui e abissali, di quelli che paiono riecheggiare dai turbamenti più intimi dell’animo umano: il sintagma della sua grammatica musicale non è la croma ma il fonema. Al menestrello anacoreta Moondog, musicista dall’outfit iperboreo ma dal suono equatoriale, ciò che interessa è soprattutto una cosa: che la musica, la sua musica anti-capziosa, ipertestuale, stratificata, cervellotica, sia di tutti.
Per Moondog quel che conta è la bellezza, e imparare a riconoscere l'essenziale è il segreto rivelato dalla pizia. Che fare dunque, per chi ne possiede un brandello, se non farne convito coi poveri abbienti di New York? E come solo accade allo scienziato, che nel difetto del genoma intuisce la chance della specie, anche Moondog fa di mancanza virtù: chi meglio di lui può capire cosa sia la bellezza? Cosa più dell’occhio solingo del guercio, che non possiede il vincolo definitorio della vista, filtro che discetta la bellezza e la screma secondo canoni sizigiali, la compatta e la patina in uno sguardo alla perenne ricerca del fuoco, può carpire il davvero bello, il davvero libero e il soluto?
Moondog, jazzista norreno affetto d’astenopia nella vista ma dalle vedute musicali aquiline, sa quello che ogni concittadino giù sulla Quinta, riassorbito nei miasmi metropolitani, non vuole sentirsi rivelare, per difetto di tempo o di passione: che la bellezza è per tutti, purché ci si fermi ad afferrarne i brandelli essenziali. E così il vecchio Moondog, pensatore musicale nostalgico per una patria non sua, vive di anemoia riflessa in una città intrappolata in un futuro eterno, e con la trimba in spalla e l’elmo posticcio sul capo scrive contrappunti d'antan, ma col pensiero ai posteri dei posteri.
Se Moondog non avesse la bellezza, vivere in quelle condizioni non avrebbe alcun senso: la cecità lo ha strappato precocemente all’infanzia, eppure l’essenziale, ai coriacei, non lo si scianca che con la morte. E coriaceo Moondog lo è: basta guardare il suo elmo. È per questo che il vecchio Moondog, suonatore disinteressato e lisergico, abbarbicato alla vita tramite sillogi musicali e invenzioni da teoreta, la bellezza sa dove trovarla, e se non può trovarla, allora la fa. Per poi elargirla a poco, perché se di bellezza non si mangia essa è pur sempre il limo con cui costruire castelli di sabbia dura, di quella che crolla soltanto al suono conforme dei poeti laureati, per ribellione o per sabotaggio. Perché la sua musica, torbida, non accetta il compromesso della categoria, e preferisce bazzicare costantemente fra il solvente e il soluto. Si vive di stacchi e di sguardi distolti all’ultimo soffio.
Moondog, poeta dedito al cut-up musicale, è pronto a tutto pur di restituire il senso a ogni suono fra l'umano e l'urbano, dal clacson percosso del taxi alla ciaccona di Bach delle sale da concerto: l’importante, come ebbe a dire, è non morire in 4/4.
Così, mentre gli altri passano il tempo a trovare l'uso nuovo al mezzo desueto, Moondog, autodidatta fino al parenchima, opta per l'invenzione dello strumento nuovo: il suo più grande successo, la trimba, che a vederla pare adusa al raglio o tutt'al più all’elegia vichinga, ha invece il suono caldo del tribalismo rituale e produce fantasmagorie musicali originarie.
Per Moondog non c’è suono che non valga: ogni invenzione può divenire essenziale. E l’essenziale, velato agli occhi come secondo antichi explicit di letteratura d’alta quota, muta al mutare delle sensibilità di chi ne è alla ricerca: ad altezza vista per i pavidi, su in quota per gli iperbolici. Della musica di sostanza le sue invenzioni non si fanno succedanee; semmai rivelano ciò che i suoi colleghi conformi fanno della musica tramandata, perpetrandone l’inessenziale.
E così, fra la 53esima e la 6a, Moondog vende spartiti a poco prezzo e produce un ardente sonare, almeno finché ne avrà forza: l’essenziale, non visibile a occhio nudo, batte al ritmo epentetico di una vecchia trimba.