C'è una scena, all'inizio di Nope, il terzo lungometraggio di Jordan Peele, con la quale il regista e comico newyorkese mette subito le cose in chiaro: vediamo un vecchio filmato d'epoca, che ritrae un fantino al galoppo in quella che sembra quasi una antica proiezione di diapositive. In effetti ci accorgiamo subito che il filmato non ha la fluidità dei 24 fotogrammi al secondo, e osservando in basso sulla sinistra è possibile notare un numerino che scorre progressivamente al ritmo del galoppo del cavallo. Si tratta di Sallie Gardner at a Gallop, la celebre successione di fotografie datata 1878 che costituiscono uno dei più antichi esperimenti di cinematografia vera e propria. Il cinematografo dei Lumière era infatti, all'epoca, ancora di là da venire, e chi si dilettava nella creazione di illusione del movimento al tempo lo faceva solo con strumenti ben più antichi, come zootropio e fenachistoscopio.
Come spesso accade, anche nel caso di Sallie Gardner at a Gallop i primi esperimenti fatti con un mezzo tecnologico nato da poco – la fotografia, di cui il filmato, ideato da Eadweard Muybridge, ne rappresenta una rapida successione – derivano da un'esigenza tecnica e non per fini puramente espressivi: il filmato (anche se all'epoca non lo si sarebbe chiamato così) fu infatti commissionato a Muybridge da un industriale interessato allo studio del movimento del suo cavallo, Sallie Gardner, al galoppo.
Se Jordan Peele – regista impegnato attraverso la sua produzione cinematografia nel sostegno alle cause delle minoranze etniche e non solo – sceglie di cominciare il suo film con lo stesso filmato che ha dato i natali al mezzo espressivo col quale egli opera, è perché c'è un evidente filo, nel suo cinema, fra tradizione e innovazione, fra passato e futuro. Il suo ultimo lavoro, Nope, è in effetti difficilmente ascrivibile a un singolo genere cinematografico, e bazzica costantemente fra l'azione, la fantascienza, il thriller, l'horror e i tratti da commedia nera che Peele distribuisce qua e là e che sono rintracciabili in special modo nell'ironia dei suoi personaggi, tratto comune anche ai suoi due lavori precedenti, Scappa – Get Out e Us.
Questa tensione fra passato e futuro, in Nope salta fuori e diventa la colonna portante del suo lavoro: non solo Sallie Gardner fa da avvio al film e diventa la chiave di lettura grazie alla quale comprendere le questioni inerenti allo sviluppo della trama, ma a testimonianza di ciò Peele inserisce anche uno dei simbolismi più cari alla storia del mezzo e, soprattutto, della fantascienza cinematografica. Vale a dire la linea evolutiva scimmia-uomo-alieno tanto cara a una tradizione che riporta almeno a capisaldi come 2001: odissea nello spazio e Il pianeta delle scimmie (entrambi del '68), e che il film ripropone grazie alla presenza di uno scimpanzé – non a caso mostrato nella vera e propria scena d'apertura del film, nonché simbolo che dà il nome alla casa di produzione di Peele, la Monkeypaw Productions. Scimpanzé che poi diventa uomo e infine, a secondo atto inoltrato, entità extraterrestre. Se Peele non manca di evidenziare i torti fatti dalla storia ai singoli individui (dell'identità del fantino in Sallie Gardner, a conti fatti il primo “attore cinematografico” della storia, non resta che un'ipotesi rispondente al nome di G. Domm) ciò di cui si premura Peele è però di non essere accondiscendente nei confronti dello spettatore: di risposte, in questo senso, non ne abbiamo, così come forse rimane l'interrogativo sulla scarpetta rimasta in piedi in un equilibro troppo innaturale per essere vero – fantascientifico appunto – subito dopo la strage compiuta negli studi televisivi dallo scimpanzé Gordy. Come quasi a dire che sì, attraverso immagini e montaggio la trama si sfila tutta quanta da sé, e tanto più ciò avverrà quanto più sarà bravo e attento lo spettatore; ma un elemento di caos irrisolvibile questo mondo lo presenterà sempre, e risulterà quasi inutile farsi troppe domande a tal proposito.
È proprio seguendo questa logica del “non farsi troppe domande, ma agire” che Peele scrive i suoi personaggi: nessuno è davvero interessato alla provenienza dell'entità extraterrestre, o al suo possibile statuto divino; ciò che conta è l'evidenza e ogni evidenza degna di nota, suggerisce Peele, merita di essere registrata, filmata, immortalata. Vuoi per desiderio di gloria e vezzo dell'artista, come avviene per il direttore della fotografia Antlers Holst (interpretato da Michael Wincott), che pur avendo già in pugno il filmato dell'entità aliena si immola per ottenere un'inquadratura centrale e ieratica, sacrificando la propria vita allo sguardo diretto del mostro, come accadeva alle vittime di Medusa; vuoi per un ben più pratico bisogno di denaro, come per i fratelli Haywood (interpretati da Daniel Kaluuya e Keke Palmer), che non sono artisti ma gente che alleva i cavalli e si spacca mani e schiena di lavoro. E chi, come Otis ed Emerald Haywood agisce per necessità, alla fine può anche uscire vincitore dallo scontro con Golia. Perché agire per necessità vuol dire farsi furbi, pensare a delle soluzioni, a farla franca.
Jordan Peele sceglie sempre, come era stato nei suoi precedenti film, di trattare tematiche sociali a lui care, ma se in passato esse venivano espresse in maniera così vivida ed esplicita attraverso le situazioni assurde e paradossali all'interno delle quali i suoi personaggi erano inseriti, in questo caso è Jean Jacket, l'entità extraterrestre, a diventare quasi un gigantesco MacGuffin che, di riflesso, fa emergere dai caratteri presentati dal regista i personaggi veri e propri, costringendoli a trovare soluzioni pratiche, ragionamenti ingegnosi e industriosi, talvolta compromessi reciproci. Sono i fratelli Haywood, studiandone il comportamento, a capire che Jean Jacket non è un'astronave ma una creatura biologica, ed è Otis a capire di non dover guardare in faccia il mostro per non attirarne l'attenzione. E i due capiscono tutto ciò combattendo e armeggiando, schierandosi in prima linea.
Per realizzare questa sua visione, Peele sceglie di mettere in pratica tutte le caratteristiche tipiche del suo cinema già visto in passato: la macchina da presa si muove sempre lenta, specie nella prima metà del film, per poi aumentare i giri del motore quando l'arcano è finalmente svelato e si passa alla fase action vera e propria all'inizio dell'ultimo atto (dove peraltro Peele non si lascia sfuggire l'ennesima citazione alla scena della frenata in motocicletta di Kaneda in Akira (1988) di Otomo, una delle scene più citate nella storia del cinema e della serialità animata). Anche in questo la cifra stilistica di Peele resta a perfetta metà fra tradizione e innovazione: il lavoro di macchina è essenziale, non volutamente ricercato, salvo quando si tratta di mostrare gli elementi di novità. Si pensi soltanto a come Peele sceglie di mostrarci e quindi di farci capire che la sua creatura, Jean Jacket, non è un corpo tecnologico e robotico come nella fantascienza più tradizionale – da cui per altro Peele attinge – ma un essere biologico in tutto e per tutto, altro elemento che inoltre lo colloca all'interno di una tradizione fantascientifica moderna, dove l'interesse non è più sull'UFO ma sul suo possibile contenuto, l'essere vivente che lo abita: Peele sceglie di mostrarci tutto ciò nella maniera più estrema, facendo penetrare la macchina da presa dentro le sue viscere e il suo apparato digerente, facendoci vedere uno strisciare di corpi inghiottiti quasi sistolico: di Jean Jacket non vediamo ancora lo sguardo, troppo abbacinante per lo spettatore, ma ne abbiamo esplorato le interiora, le carni, le fattezze biologiche.
E così, grazie a un film che pensa indietro ma guarda avanti, Peele riesce a parlarci del nostro mondo di oggi, della separazione a lui tanto cara (vedi il suo Us) tra chi ha tutto e chi non ha niente, tra chi si sbatte per vivere in un allevamento di cavalli e chi usa quelle maestranze al fine proclamato dell'”arte”, senza mai riconoscerne nulla ai legittimi proprietari. Così come era stato per G. Domm, il fantino di colore di Sallie Gardner at a Gallop, la cui vera identità e storia è ormai persa nel tempo, ma la cui immagine immortalata in successione è consegnata per sempre ai posteri e alla storia del cinema. Così come l'immagine immortalata di Jean Jacket è il frutto del duro lavoro e dell'industriosità dei fratelli Haywood, che lo custodiscono gelosamente e su cui potranno fondare una vita (forse) migliore. Ma almeno questa volta, se non lo farà la storia, lo spettatore potrà riconoscergli questo innegabile merito.