Ecco un breve racconto dal cassetto dei ricordi.
Durante il quarto o quinto anno di liceo, il professore di letteratura fece alla classe un piccolo test. Il nostro insegnante ci sottopose a un esperimento mentale simile a quello del trolley problem, chiedendoci di fare una scelta fra due opzioni. L'esperimento era formalizzato grossomodo come segue.
Mettiamo che qualcuno tenga ostaggio una persona — non un vostro parente né un conoscente, si parla di una persona totalmente a caso. Vi dice che l'unico modo per salvarla è scegliere di distruggere le piramidi egizie, cosa che secondo l’esperimento rientra nelle sue possibilità. Cosa fareste? Salvereste quella persona o scegliereste di preservare le piramidi?
Sottoposta a questo test, la quasi totalità della classe rispose senza pensarci due volte, affermando di voler salvare la persona e distruggere le piramidi. Quando il professore ci disse che lui, al contrario, avrebbe salvato le piramidi, molti dei miei compagni andarono su tutte le furie, dandogli dell’insensibile e quasi aggredendolo verbalmente per la mancanza di empatia e lo spietato materialismo. Immaginatevi cosa si prova ad assistere alla scena del tutto atipica di un gruppo di neo-diciottenni che fanno del paternalismo a un uomo adulto. Per queste situazioni gli inglesi hanno coniato un’espressione precisa: how the turntables.
Circa un annetto dopo, nelle sale veniva proiettato per le prime volte Si alza il vento, il lungometraggio di Hayao Miyazaki il cui addio alle scene, che con l’uscita del film andava di pari passo, alla fine si rivelò essere una falsa pista. In un passaggio memorabile del film, durante un incontro onirico fra il protagonista Jirō Horikoshi e Giovanni Caproni, Conte di Taliedo, quest'ultimo sottopone Jirō a un dilemma molto simile a quello cui ci sottopose il mio professore, ma in una versione più stringata: “Tu, tra un mondo con le piramidi e un mondo senza le piramidi, quale dei due preferisci?”, domanda il conte. Iniziato dallo stesso Caproni alle meraviglie dell’aviazione, Jirō, che Miyazaki modella sulle sue stesse fattezze da giovane, risponde al conte con le parole di Hideaki Anno, che gli dà la voce, e in maniera altrettanto stringata: “Piramiddo desu ka”. Le piramidi. La sua risposta ha l’ingenuità tipica dello scienziato romantico, che smarca il dilemma etico per concentrarsi esclusivamente sull'oggetto del suo desiderio, o dovremmo dire della sua smodata (e forse, visto il contesto di guerra, inopportuna) ambizione. Jirō non conosce tante cose, è un ingenuo che pretende di continuare il suo gioco di bambino in un mondo di adulti che si fanno la guerra; e non capisce di trovarsi fuori tempo massimo a inseguire un sogno troppo costoso, in una realtà storica in cui il sogno sta vivendo il momento di massima flessione. Eppure c’è qualcosa che, nonostante la sua ingenuità — e anzi forse proprio in virtù di questa — Jirō conosce meglio di quasi tutti, e cui intende dedicare ogni briciolo di energia, ogni residuo del suo ingegno di uomo di scienza che gioca con le vecchie leggi della fisica con l’intento di creare nuove leggi al suo gioco di bambino: gli aeroplani, vale a dire le sue piramidi.
Scegliere le piramidi, tratto etico che secondo molti dovrebbe accomunare l’ingenuo (come Jirō) all’insensibile (come il mio professore di letteratura), nasconde però un elemento non trascurabile: e cioè che esiste un solo mondo, che è il mondo con le piramidi. Le parole del mio professore e di Jirō, prima ancora che di un insensibile o un ingenuo, sono le parole di un realista. Vogliono le piramidi perché pensare un mondo senza sarebbe superfluo, uno sterile esercizio dell’intelletto, una posa da moralisti a buon mercato. O forse, molto più semplicemente, sono solo bambini capricciosi con un forte desiderio: vogliono le piramidi. Un mondo senza di loro non esiste. Ipotizzare un mondo senza piramidi è un esempio in piena regola di pensiero controfattuale, con cui ci si interroga su come starebbero le cose se. What if. La realtà però è una sola, che il mondo con le piramidi esiste, e per una semplice ragione: che gli uomini l’hanno scelto. E non si tratta di una condizione una tantum verificatasi per qualche situazione straordinaria migliaia di anni fa, sulle sponde del Nilo, in un contesto i cui valori morali sono a noi del tutto estranei; al contrario, scegliamo le piramidi ogni giorno, e ognuno di noi, a modo proprio, finisce per farlo.
Perché alla fine, che cosa significa scegliere le piramidi?
Scegliere le piramidi significa constatare che il compromesso è l’unica condizione di realizzabilità del sogno, qualunque sia la sua scala di grandezza. Non esiste un sogno realizzato (o che si è tentato di realizzare) che non sia passato da un accordo stipulato con terzi che del sogno ha finito per tradire la pristina bellezza. Essere accomodanti è la precondizione necessaria per provare a realizzare il sogno umano, e la capacità di contrattare, di persuadere, di accettare compromessi, è l’unico modo di dar forma al proprio sogno. L’alternativa è che il sogno svanisca, troppo bello e puro per essere realizzabile. Il sogno è compromesso perché compromette il realizzatore. Se vuoi realizzare devi sporcarti le mani, ed è per questa ragione che gli imbonitori vedono spesso compiuti i propri sogni: sanno sporcarsi le mani. E sporcarsi le mani è l’unico modo per non rimanere taciuti, per non vedere il sogno svanire sacrificato all’altare dell’idealismo, che lo voleva troppo puro per essere anche realizzabile.
Perché in fondo che cos’è scegliere le piramidi se non un atto di dovuto realismo?