Appunti di regia: 1 - Il Ponyo di Miyazaki
Ponyo sulla scogliera come sfida tecnica ed espressiva
Prima di cominciare la produzione dei suoi lungometraggi, Hayao Miyazaki è solito scrivere alcuni appunti sul progetto in cui sta per imbarcarsi, per fare chiarezza e cercare di capire quali saranno gli aspetti chiave del suo film e quali elementi operativi verranno ipoteticamente presi in considerazione per le fasi successive. Gli appunti contengono argomenti che spaziano dalla definizione del personaggio principale ad aspetti puramente tecnici, e possono variare in base al tipo di lungometraggio e di storia che si intende raccontare. Sempre, però, sono presenti in questi appunti alcune note sul tema dell’opera, nonché il tentativo di rispondere alla domanda: “Perché voglio fare questo film?”. Se si guardano i tanti documentari che lo ritraggono al lavoro durante le fasi calde della produzione, è spesso possibile vedere un Miyazaki sfruttare il pretesto della camera che lo riprende per dialogare con se stesso, e rispondere ai dubbi che lo attanagliano. Una delle cose che lo si sente in più occasioni dire è: “Non voglio fare un film di cui io possa vergognarmi”. Forse è per questa ragione che, prima di decidere su quale progetto investire tempo ed energie, Miyazaki prende appunti e cerca di definire nella maniera più chiara possibile il tema e le sfide che il suo lavoro comporterà; così facendo, Miyazaki cerca di mettere un punto fermo alla definizione della propria visione, in modo che questa non venga distorta durante le fasi successive. Un tentativo, da parte sua, di iniziare a “vedere” il film prima che questo cominci a essere realizzato, e di tenere dritta la barra del timone.
Al netto del fatto che poi mantenga davvero inalterate tutte le sue idee — cosa che, com’è normale che sia, spesso non avviene — è interessante notare la chiarezza con cui Miyazaki pensi ai suoi film dandogli lui per primo una chiave di lettura e una ragion d’essere ben scandita.
Nel caso di Ponyo sulla scogliera, cercando di definire l’intento del suo progetto, Miyazaki fa la cosa più affascinante: unisce l’aspetto tematico a quello puramente tecnico ed espressivo. Per capire cosa intendo, riporto qui il passo:
L’oceano è una presenza viva. […] Il mare sottostante, proprio come la nostra mente subconscia, si interseca con la superficie increspata dalle onde che sta di sopra. Distorcendo lo spazio naturale e contorcendo le forme normali, il mare viene animato non come un fondale della storia ma come uno dei personaggi principali.
Hayao Miyazaki, Project Intent di Ponyo, Turning Point 1997-2008.
Cercando di evitare le possibili interpretazioni psicoanalitiche del tutto fuori luogo che parrebbero emergere da questo passo, specie per un film che ha come target i bambini in età prescolare1, quello che ci interessa è che, nel circoscrivere le ragioni per cui dar vita al suo Ponyo, Miyazaki lo pensi prima di tutto come una sfida tecnica. Una dichiarazione di intenti che si palesa subito dopo, quando Miyazaki butta giù alcune note sui problemi che lui e il suo staff saranno chiamati ad affrontare per animare il film.
Se l’intenzione dichiarata è quella di fare un film per bambini che renda l’acqua un personaggio vivo, quello che Miyazaki chiama “intento nascosto” è invece il desiderio di rendere il suo film un possibile “successore dell’animazione 2D”2.
Per Miyazaki, le sfide tecniche sono numerose:
Incrementare il numero dei disegni per la resa del movimento.
Trovare soluzioni inedite di character design — per esempio dando agli occhi una superficie sferica — così da accentuare la fisicità del movimento dei bambini, e restituire l’energia di cui traboccano sotto forma di movimento.
Lavorare al movimento delle onde e dell’acqua, attraverso l’utilizzo di linee continue.
Migliorare la resa visiva del vento, per fare qualcosa che ritiene di non aver ancora fatto con l’animazione in rodovetro.3
Sbarazzarsi delle linee dritte, per accentuare il carattere fantastico del film attraverso uno stile più “tremolante”.
Idealizzare il Giappone odierno, per presentarlo come un luogo un po’ più vivibile.
Utilizzare disegni semplici, per liberare lo spettatore da alcune costrizioni che verrebbero invece imposte da uno stile più elaborato.
Ora, al netto di alcune possibili contraddizioni relative alle sue intenzioni (abbastanza tipiche a dire il vero, quando si parla di Miyazaki) — come per esempio il voler ritrarre un Giappone idealizzato pur raccontando la catastrofe marittima, facendo poi leva su un tema, la sensibilizzazione ambientale, di cui Ponyo è foriero — è interessante soffermarsi su alcuni di questi punti, che testimoniano quanto il film sia importante se inteso come sfida tecnica, e come soltanto la sua resa espressiva possa realizzare quello sguardo incantato che Ponyo vuole evocare nello spettatore bambino e restaurare in quello adulto.
Prendiamo, per esempio, il punto 4. Miyazaki vuole fare qualcosa che sente di non aver ancora mai fatto col 2D in rodovetro, ovvero provare una nuova resa visiva del vento. Questo dettaglio non è secondario, specie se si pensa che il suo film successivo, Si alza il vento, sarà tutto giocato su soluzioni sceniche che vedranno nella presenza del vento — nelle sue molteplici forme — l’elemento cardine di rappresentazione. Questo è tipico di Miyazaki: lavorare a un corto o lungometraggio significa sempre anche sperimentare, e ogni lavoro può essere un banco di prova per il successivo — più sul piano tecnico che su quello narrativo, dove invece non esiste una vera e propria continuità cronologica nella filmografia del regista.
In Ponyo, il vento è presente specialmente in cima alla scogliera su cui abita Sōsuke, e si tratta di una scelta ben precisa. Nei primi minuti, dopo che il bambino ha raccolto la piccola pesciolina incagliata in un barattolo di vetro per poi correre su su verso casa, la collinetta è scossa da un vento che fa frusciare l’erba che attornia l’edificio. Le prime parole di mamma Risa, che attende il suo bimbo, sono proprio: “Che vento strano!”. La trasformazione è un elemento tanto narrativo quanto scenico4, e il vento se ne fa portavoce come elemento che fisicamente scuote le vite di Ponyo e della sua mamma. Il risultato della presenza del vento si ripercuote anche su uno dei pezzi da novanta del repertorio dell’animazione di Miyazaki: scompigliare i capelli dei personaggi. Quando sono in cima alla scogliera, le folte chiome di Ponyo, Risa e Fujimoto sono sempre in movimento, una festa animata che ha contribuito a rendere la quantità di disegni richiesta per il film a dir poco spaventosa, un numero che si aggira all’incirca tra 170000 e 1800005. Dal punto di vista scenico, rendere il vento ha così ricadute anche sul punto 1, ovvero aumentare il numero di disegni necessari in modo da rendere al meglio il movimento. Ponyo è forse il film più denso di movimento di Miyazaki, e ogni scena risuona di questa sfida tecnica.
Quando, per esempio, Risa recupera Sōsuke dal mare in cui il bimbo ha perso la sua nuova amica, nel ritrarre la mamma che esce dall’acqua con in braccio il figlio è possibile vedere la donna profondersi in una quantità di gesti isolati, tutti ben identificabili e rappresentati con un forte naturalismo di fondo: Risa prende Sōsuke in tutta fretta, si aggiusta un braccio per reggerlo meglio, si passa una mano sul fianco per afferrare il secchiello verde del bambino e se lo porta davanti a sé. Il tutto nello spazio di pochissimi secondi, per una scena qualsiasi e fra le meno dinamiche del film.
Altre scelte affascinanti dal punto di vista registico sono quelle dei punti 3, 5 e 7. Miyazaki si propone di attuare un disegno più movimentato, attraverso l’uso di linee che definisce “delicatamente distorte”: quello a cui si riferisce sono in particolare gli sfondi. Come è risaputo, gli sfondi di Ponyo rappresentano un caso unico nella filmografia Ghibli, specie per l’adozione di disegni più “bambineschi”. Ma nel leggere queste parole, viene da chiedersi cosa Miyazaki cercasse di preciso di raggiungere, attraverso l’utilizzo di queste linee distorte.
Gli sfondi del film sono una gioia per gli occhi, eppure è vero che spesso hanno un look più infantile, che comporta una sottile distorsione. Oltre ad alcuni oggetti, spesso disegnati con linee tremolanti, uno dei casi più affascinanti è il lieve effetto occhio di pesce (il cui nome non potrebbe essere più adatto per l’occasione) che è possibile osservare specialmente in alcuni primi piani o piani medi:
La scelta di Miyazaki di sbizzarrirsi come non mai con gli sfondi è precisa, ed è motivata dal suo desiderio di produrre un look magico e libero dalle prospettive cui il disegno normalmente costringe. Il suo desiderio è quello di far “gonfiare, immergere e oscillare l’orizzonte”6.
La novità che però trovo più avvincente in Ponyo è l’uso che Miyazaki fa della musica. Si tratta di un argomento che merita un discorso a parte. Durante le fasi di studio per i suoi film, Miyazaki è solito prendere vari appunti destinati al compositore Joe Hisaishi, nei quali gli presenta i temi che verranno esposti, traccia un profilo dei personaggi e cerca di offrire al musicista alcune delle impressioni da rendere attraverso la musica. Nel file che scrive per Hisaishi in questo caso, Miyazaki specifica direttamente che la musica richiesta per il film deve essere diversa rispetto al solito. Se si ascolta la colonna sonora di Ponyo — che grazie all’operazione di marketing di Suzuki fu tra l’altro un grande successo commerciale, per di più ancora prima che il film venisse rilasciato in sala — si nota subito come Hisaishi componga una musica direttamente coinvolta nelle vicende di Sōsuke e della bimba ribelle. È di fatto impossibile pensare a Ponyo sulla scogliera senza tenere a mente il ruolo che gioca la sua colonna sonora: non una semplice forma di accompagnamento ma un elemento di conduzione scenica.
Prendete come esempio la scena iniziale: dopo un inizio dal forte impatto visivo, con una sorta di esplosione cambriana che viene raccontata grazie alla potenza dell’attacco del tema musicale, il ritmo rallenta; la piccola Ponyo esce allo scoperto e cerca di non farsi vedere da papà Fujimoto. La musica conduce: non è subordinata all’azione, ma la detta. Poi, in un crescendo emotivo, mano a mano che Ponyo risale verso la superficie e vede la luce, anche il suono si fa sempre più forte e coinvolgente, in un crescendo musicale che è il contraltare dell’ascesa fisica verso l’emersione della pesciolina.
Quasi superfluo, poi, nominare il momento epico dello tsunami, nel quale Ponyo cavalca enormi onde dalla forma pelagica condotta da una musica che Miyazaki chiede a Hisaishi di comporre ispirandosi alla Cavalcata delle Valchirie, dalle quali la stessa Ponyo prende il suo vero nome: Brunilde, come la sapiente valchiria della mitologia norrena.
In Ponyo più che in altri casi, Miyazaki sfrutta la musica come strumento registico e trova nel montaggio musicale il luogo dell’esposizione dei temi del film. Negli appunti per Hisaishi, fa quello che non si era concesso in precedenza: discute del simbolismo del film, della divisione fra acqua e terra come riflesso del dualismo femminino/mascolino, delle figure paterne di Fujimoto, padre di Ponyo, e Kōichi, papà di Sōsuke. Parla, in particolare, del fatto che Sōsuke dovrà scongiurare un grande pericolo, ovvero quello di diventare un adulto compromesso come i due uomini, e che potrà farlo solo attraverso le sue scelte.
Approfittiamo di questo dettaglio per fare un’ultima osservazione prima di chiudere.
Sono proprio le scelte di Sōsuke a definirlo come personaggio: quando Risa non può tornare a casa per colpa delle terre sommerse dall’oceano, lui e Ponyo decidono di imbarcarsi senza paura nella prossima avventura, che non è solo il viaggio alla ricerca della mamma in pericolo, ma il prossimo test della maturità, che assume la forma del gioco di bambino. Questo avviene perché Miyazaki libera il film da ogni componente di perdita assoluta: il grande tsunami, il cattivo Fujimoto e l’assente padre Kōichi non sono avvertiti dal piccolo Sōsuke come pericoli per la propria vita e quella degli altri ma come step formativi, ostacoli tra cui muoversi per capire in che modo dare forma alla persona che lo stesso Sōsuke vuole diventare. Il bimbo, nel film, non rischia mai davvero di perdere tutto, se non di compromettere (e quindi sciupare) la cosa più importante: chi sarà un giorno divenuto adulto.
È una cosa che, nello scrivere a Hisaishi, lo stesso Miyazaki tiene a specificare: Sōsuke si trova in quell’età particolare, i cinque anni, in cui secondo lui un bambino è per l’ultima volta una creatura priva di una volontà sua, e si appresta a compiere le propria scelte. Un elemento di cui il film risuona: Sōsuke raccoglie Ponyo dal mare, poi la conserva nel suo secchiello e in una prima fase la tiene nascosta agli altri; si tratta già della scelta di un bambino che, resosi conto di avere fra le mani qualcosa su cui per la prima volta può attuare una decisione tutta propria, non manca di figurarsi un piano tutto suo sul come comportarsi. La piccola Ponyo è, in questo senso, educatrice dello stesso Sōsuke al pari di mamma Risa, e lo guida a scelte più consapevoli — come quella, appunto, di prendere il largo e cercare di ritrovare la donna dispersa.
Ci sono altri aspetti registici del film che meriterebbero di essere discussi, ma per ora fermiamoci a quanto detto. Chiudo con un breve appunto: tutte le volte in cui mi è capitato di vedere Ponyo sulla scogliera, lo ammetto, ho sottovalutato il film; non per il target infantile né per il suo impianto narrativo o per l’impatto puramente visivo — elementi così forti e ben delineati che non possono essere presi sotto gamba. Il tassello che mi mancava era forse la visione in sala, che ha contribuito a restituire la ragion d’essere del film, un’esperienza ricca di azione in cui a farla da padrone è la sfida tecnica ed espressiva. Forse, in questo senso, il tassello che mi mancava non era tanto la visione in sala di per sé quanto realizzare che il film rappresenta un grande banco di prova per l’animazione tradizionale.
È il tentativo di Miyazaki di dire: l’animazione tradizionale ha ancora grandi margini, e ci sono delle cose che non ho ancora fatto. Proviamo a farle adesso.
Anche se Miyazaki, nella nota sul target del film, scrive: “bambini di età prescolare e persone di tutte le età”.
Turning Point 1997-2008.
Su questo punto Miyazaki è perentorio. Scrive: “In passato abbiamo usato l’animazione in acetato per mostrare forti raffiche di vento, ma non abbiamo ancora provato a mostrare una lieve brezza. Voglio realizzarlo.”
Come ha giustamente notato Isaia Silvano in questo suo articolo.
Il numero è ancora più impressionante se lo si mette a paragone con quello, per esempio, di Princess Mononoke, che è anche circa 40 minuti più lungo di Ponyo: 140000.
Turning Point 1997-2008.