Appunti di regia: 2 - Il volo silenzioso di Kiki
Kiki - Consegne a domicilio e le pause narrative
Durante una serata organizzata dall’università di Berkeley nel 2009 a seguito dell’assegnazione del Berkeley Japan Prize, Hayao Miyazaki tenne una conversazione con l’esperto di cultura giapponese Roland Kelts. Verso la fine dell’evento Kelts, dopo aver letto alcune domande del pubblico, approfittò dell’occasione e chiese al regista: “Prenderesti mai in considerazione l’idea di fare un film live action?”. La risposta di Miyazaki fu un semplice quanto eloquente scossone della testa, che provocò le risate del pubblico in sala. Se si riflette su quest’aneddoto e sul perché della perentorietà nella risposta di Miyazaki, per capire cosa intendesse si può pensare a Kiki - Consegne a domicilio.
Analizzando la presenza dell’elemento magico nella filmografia di Miyazaki ci si rende subito conto che Kiki gode di uno statuto particolare: la protagonista è una piccola strega, ma l’unico vero potere che viene messo in scena è la sua capacità di librarsi su una scopa magica. Mentre in altri lungometraggi di Miyazaki la magia — nelle sue varie declinazioni — è una presenza inscindibile e si interseca con vicende, mondi e personaggi, nel caso di Kiki tutto sembra venir rimesso alla maturazione della protagonista: dal momento in cui mette su la propria impresa di consegne espresse a quello in cui perde la capacità di volare e la riacquista, il potere magico è subordinato, per importanza, alla crescita interiore di Kiki. Di fatto la sua capacità di volare è la risposta che la ragazza trova a una domanda che la attanaglia: c’è qualcosa che so davvero fare?
Kiki sa volare proprio come un cestista sa giocare a pallacanestro, un maniscalco sa ferrare i cavalli e un panettiere impastare e infornare. La sua magia in questo senso non dimostra d’avere nulla di eccezionale, e anche nella scena più concitata del film — quella in cui Kiki sventa un possibile disastro durante la fase conclusiva — l’aspetto magico viene contenuto, facendo sì che lo spettatore sia maggiormente concentrato sul fatto che la ragazza abbia riacquistato la sua capacità, che non su quanto di straordinario quel potere le consente di fare.1
Il fatto che in Kiki si tenti di ricollocare il ruolo della magia per fini narrativi ci permette di tornare sulla risposta data da Miyazaki a Kelts a proposito dei live action.
Ogni volta che si guarda un film come Kiki è importante porsi la domanda: perché questo film è animato? Il fatto che sia stato realizzato attraverso le tecniche d’animazione fa parte delle ragioni che ne contrassegnano la riuscita? Oltre alle risposte più scontate — per esempio che il film è animato semplicemente perché è realizzato da uno studio che sviluppa corti e lungometraggi d’animazione — è importante capire quali sono le ragioni strutturali che giustificano l’esistenza di un’opera alla luce della tecnica impiegata per realizzarla. Il rischio, nel fare qualcosa senza tenere a mente i mezzi con cui la si sta facendo, è di impiegare la tecnica in modo protocollare, e di collocare le componenti di un’opera in un determinato posto solo perché è lì che di norma le abbiamo viste — una differenza di metodo che separa il lavoro buono o cattivo da quello sublime. La regia di Miyazaki in Kiki tende al secondo caso, e per capirlo basta pensare alla sua prosa visiva.
Prendiamo, a mo’ di esempio, la maniera in cui Miyazaki mette in gioco il potere di Kiki, quello di volare. Nei suo lungometraggi il volo è associato a una forte componente sonora: dal chiasso di turbine e rotori dell’officina Piccolo in Porco Rosso ai suoni human-made che accompagnano i decolli dei velivoli di Si alza il vento, passando per il frinire del volo di libellula degli sgherri di Suliman ne Il castello errante di Howl, volare significa fendere l’aria ad alta velocità, scendere giù in picchiata, destreggiarsi in virate e manovre acrobatiche, staccarsi dal suolo e fluttuare raso terra. Al fattore sonoro fa il paio quello relativo al climax: il volo è spesso l’acme delle sequenze più concitate o si associa al momento di massima compiutezza narrativa di chi lo mette in pratica.
Ora, in Kiki il volo è pervasivo ed esistono più scene la cui rappresentazione ricorda da vicino quella sopra esposta — fra cui la già citata e “controversa” scena conclusiva2; ma esiste anche un altro modo di rappresentare il volo come gesto puro, ed è il volo in cui Kiki si profonde nei momenti di stasi narrativa, quelli in cui nulla pare accadere e dove, invece, Kiki emerge come personaggio: una ragazzina permalosa, incerta e con tanto sale in zucca quanto basta per sapere che possedere un semplice potere non è sufficiente, occorre poi metterlo a frutto.
In Kiki il volo è in più occasioni ripulito dalla sua componente chiassosa: più che volare molto spesso la streghetta si libra, dondolandosi sulla sua scopa magica accompagnata da un silenzio pristino, che precede il suono e ogni sua associazione con quello che Miyazaki considera il massimo gesto umano, staccarsi da terra.
Il silenzio di questi voli di Kiki è prezioso, perché combacia alla perfezione con la personalità a metà fra il controverso e il contraddittorio della ragazzina: se è vero che Kiki è permalosa, scontrosa, capricciosa e a tratti persino burbera, la piccola strega è anche dotata di una grande dolcezza e genuinità d’animo, senza dimenticare che in più di un’occasione nel film si accenna alla sua tristezza, per lei una vera e propria precondizione di spirito che ne determina ogni pensiero. Nella versione italiana si utilizza in più occasioni la parola depressione, che sottolinea come quella di Kiki sia una condizione ben precisa e che ne traccia lo statuto esistenziale. Esemplificativa è in questo senso la scena in cui Kiki, il mento spalmato sul banco della panetteria e sconsolata dopo le difficoltà riscontrate durante la sua prima commessa di lavoro, si lascia andare a una confessione intima col gatto nero Jiji: “E se di questo passo per tanto tempo non venissero clienti, e stessimo a nient’altro che frittelle tutti i giorni fino a che io non diventassi una nonna, che faremmo?”
In questi momenti è possibile cogliere la dimensione più intima di Kiki, e lo si può fare grazie alla sua espressione, che tradisce un malessere d’animo cui la streghetta teme di non saper trovare rimedio. Si tratta della stessa espressione con cui la vediamo per la primissima volta, stesa su un prato a osservare il cielo. Non è lo sguardo di una ragazzina spensierata e che guarda con speranza al proprio avvenire; è, piuttosto, l’espressione di chi riflette con inquietudine sulla propria posizione nel mondo e guarda il cielo sopra di sé — con tutto il suo portato di significato — non col piglio impertinente dell’avventuriera navigata ma col timore reverenziale della recluta. Un’espressione che non a caso le calza benissimo anche quando Kiki è a letto malata, come subendo una somatizzazione del suo mal d’animo.
A differenza di Marco Pagot, di Howl o di Haku, sin dall’inizio a Kiki non si accosta la definizione di cavaliere dell’aria quanto quella di piccola impiegata del cielo.
Che il volo di Kiki, in alcune scene, sia leggiadro e svuotato è perfetto per rappresentarne questo tratto di personalità, e ben corrisponde all’idea di Miyazaki secondo cui la visione del mondo di un autore è inseparabile dalla sua tecnica.3
Kiki vola in un modo che né il Marco di Porco Rosso né l’Haku de La città incantata potrebbero fare: a riprova di ciò, quando Miyazaki la fa staccare dal suolo per la prima volta Kiki dimostra tutta la sua acerbità: incitato il suo manico a decollare con un buffetto, Kiki non regge l’impatto e va a scontrarsi fra gli alberi evitando di poco il fracasso; subito dopo, però, si riassesta, e dopo i titoli di testa il suo volo entra di già nella dimensione che meglio ne rappresenta l’esecutrice: silenzioso e pacato, di chi vuole reggere il confronto con l’altra streghetta, più esperta e impettita.
Kiki è invece spesso sbertucciata e scomposta, alterna momenti di intraprendenza entusiasta a istanti di profondo sconforto; eppure riesce a compensare questa sua turbolenza d’animo con momenti di placida calma in cui, semplicemente, accetta le cose come stanno, seppur talvolta malvolentieri. È in questi momenti che Miyazaki fa emergere Kiki, e si tratta di passaggi di quiete in cui nulla pare accadere: dopo il tumultuoso arrivo in città e il rischio di prendere una multa proprio a causa del suo volo disadorno, Kiki incontra Tombo per poi lasciarlo issandosi lentamente in cielo; durante un tranquillo volo in solitaria, viene sconvolta dallo starnazzare di uno stormo d’anatre, il cui rumore fa da contraltare al volo silenzioso della strega e le preannuncia la folata di vento. Si tratta di brevi momenti di passaggio, in cui nulla pare accadere e che valgono come controparte “aerea” dei momenti in cui Kiki si prende una pausa dal suo sconquasso d’animo.
È grazie a queste brevi ma intense pause narrative che Miyazaki riesce a dare un tempo ben definito al suo lavoro, e si tratta di una precisa scelta di rappresentazione. Vale la pena accennare, per comprendere questo punto, la nota conversazione che Miyazaki ebbe con Roger Ebert, nella quale Ebert domandò a Miyazaki il perché di questi momenti di pausa, dove il film sembra vivere di riflessi:
Ho detto a Miyazaki che amo i “movimenti gratuiti” nei suoi film; invece di far sì che ogni movimento sia dettato dalla storia, a volte i personaggi si siedono per un momento, oppure sospirano, oppure osservano un ruscello che scorre, o fanno qualcos’altro, non per portare avanti la storia ma solo per dare il senso dello spazio e del tempo e di chi essi siano.
“Abbiamo una parola per quello,” ha detto. “È chiamato ma. Vuoto. È messo lì intenzionalmente.”
Un po’ come le “parole cuscino” [pillow words] che separano le frasi nella poesia giapponese?
“Non credo che sia come per le parole cuscino.” Poi ha battuto le mani tre o quattro volte. “Il tempo tra i miei battiti è ma. Quando hai soltanto azione non-stop senza neanche il tempo di respirare, il risultato è la frenesia. Ma se ti prendi un momento, poi la tensione crescente nel film può espandersi in una dimensione più ampia.”
Roger Ebert, riportando una sua conversazione con Hayao Miyazaki sul suo sito.
In Kiki - Consegne a domicilio anche il volo si avvicina a questa dimensione: nonostante consenta trovate di grande impatto e sia presente in alcuni momenti di svolta narrativi, è possibile trovarlo come una pausa svuotata, momenti gratuiti e forniti allo spettatore per ritrovarsi lì, con Kiki, senza l’onere di dover fare qualcosa o di dover mandare avanti il racconto a tutti i costi, ma per godere e godersi la straordinarietà di quella condizione, l’essere sospesi a mezz’aria.
Tutto ciò consente di fare una rapida osservazione su come questa rappresentazione del fantastico da parte di Miyazaki abbia dei tratti ben specifici. Funzione precipua del fantastico è quella di alleggerire, fornire un pertugio per sfuggire al sovraccarico di realtà. Nel caso di Miyazaki le cose stanno diversamente4. Nei suoi film l’immaginario sprigiona sempre un forte senso di reale, e questa è l’unica condizione in cui è possibile pensare il fantastico: non come strumento d’eversione della realtà, ma come sua rappresentazione possibile. Nel fantastico subentra sempre un forte senso di realtà, tale per cui parlare di escapismo puro è difficile, se non inappropriato; piuttosto, c’è il desiderio di fare a botte con la vita vera, in un tafferuglio tra reale e fantastico dove a emergere è sempre la verosimiglianza di ciò che viene inscenato. È una questione ritmica e di alternanza: al concitato segue il placido, al volo rocambolesco segue il fluttuare riflessivo. È anche per questo che Miyazaki prova una cortese acredine nei confronti degli strumenti del live action, e che la sua Kiki ha bisogno delle tecniche dell’animazione per librarsi in aria. Senza quella forza di rappresentazione, il ritmo del suo volo non sarebbe scandito, come mani che battono senza pausa.
A riprova della funzione narrativa dell’ultima scena e di quanto essa incida sull’economia dell’intero film, rischiando di darne tutta un’altra interpretazione, riporto le parole di Toshio Suzuki: “La maggior parte dello staff principale riteneva che il film si sarebbe dovuto concludere con Kiki che riceve in regalo la torta dalla signora […]. Li radunai per cercare di convincerli: "Se il regista non fosse Miyazaki, il film verrebbe meglio senza la scena del dirigibile. Però visto che si tratta di lui, sono certo che creerà qualcosa di interessante."”
Suzuki era convinto che chiudere il film con una scena spettacolare fosse importante, ma in cuor suo sentiva che la scena minasse la compattezza del film, facendo sfociare il focus narrativo dall’approfondimento del personaggio di Kiki a una sequenza di puro intrattenimento. Successivamente, la rivista Kinema Junpo scrisse che “se [il film] fosse finito con la scena della torta, sarebbe stato un capolavoro”. Suzuki era sostanzialmente d’accordo.
Dico controversa perché, oltre alle difficoltà in fase produttiva nel trovarne una collocazione e giustificazione narrativa, la scena conclusiva di fatto tronca il film privandolo di un vero finale, delegato ai titoli di coda.
Parlando con il fumettista francese Moebius, una volta Miyazaki affermò che “la visione del mondo di una persona e la sua tecnica sono indivisibili”.
Per approfondire questo punto, vi consiglio la lettura del capitolo dedicato a Quando c’era Marnie contenuto ne I geni dello Studio Ghibli, in cui Toshio Suzuki affronta la questione.