La debolezza più grande
Ed è solo in questo modo, cioè stando al di fuori di una struttura o di un medium, che si possono individuarne i princìpi e le linee di forza.
M. McLuhan, Il medium è il messaggio.
Da qualche tempo non faccio che pensare che un giorno mi sveglierò, i social non ci saranno più e tutto sarà stato soltanto un sogno bizzarro.
Ovviamente le cose non andranno così, ma da quando utilizzo i social — ovvero dal 2009, quando avevo appena quindici anni, — il tempo sembra essersi compresso in un unico grande momento, e anche la realtà appare diversa rispetto a prima. Quello che è accaduto nel 2013 mi sembra tanto distante nel tempo quanto quello che ho visto ieri mattina, ed è come se ogni evento contribuisse a raccontare un’unica, grande storia destinata a finire. Va da sé che questa sensazione è soltanto una stortura psicologica, ma forse varrebbe la pena analizzarla e impostarla come un esperimento per assurdo.
Facciamo finta che domani i social smettano di esistere, crollati come castelli di carte: niente più YouTube né Instagram, e diciamo addio anche a Facebook, Twitter e compagnia cantante. Cercate di immaginarlo non come il prologo narrativo di un romanzo di fantascienza, ma come la conseguenza di un’evento naturale, in modo da renderlo il più plausibile possibile — una tempesta solare imprevista, una crisi di micro-conduttori o quello che vi viene in mente; se a differenza mia avete basi avanzate nelle discipline scientifiche, scegliete l’opzione che ritenete più plausibile e applicatela al contesto. A quel punto che succede? Cosa accade se, oltre a internet, scompare anche la televisione? Come comunichiamo fra di noi? Cosa cominciamo a farne del nostro tempo libero?
La domanda cui sarei più curioso di conoscere la risposta è però un’altra: da dove alimenteremmo, a quel punto, il nostro ego? Al netto di questioni comunicative e lavorative — ché i social sono anche quello e il problema del lavoro sarebbe tra i più grandi da risolvere, — a quel punto chi ci1 dirà “bravo”? Chi, invece, che facciamo schifo? Il nostro vicino, con cui a malapena scambiamo due parole appena usciti di casa la mattina, se per caso ci capita di incontrarlo sul pianerottolo? Il panettiere, il meccanico, gli sconosciuti per strada? Perché dovrebbero farlo, se non ci stiamo specificamente mettendo in mostra per ottenere un po' di gratificazione? A quel punto uno dei problemi, per tutte le persone che si sono messe sui social molto più che per quelle che ne fruiscono passivamente, sarebbe proprio relativo alla fonte di gratificazione, quel tipo di gratificazione riferita al nostro ego. E dal momento che i nostri tassi di dopamina non sono mai stati così alti, e che andare offline per davvero e in modo definitivo è quasi impossibile (almeno fino a quando i mezzi per farlo persisteranno), cosa accadrebbe se l’offline diventasse una costrizione per causa di forza maggiore?
Non utilizzerò questo breve post per approfondire la questione, non è nelle mie possibilità né nelle mie intenzione. Si tratta di un esperimento mentale banale e didascalico, senza troppa reale importanza. Eppure penso al mio caso, quello di una persona che ha avuto l’impulso di utilizzare i social attivamente per la prima volta nel 2011, il periodo in cui ho cominciato a meditare di aprire un canale YouTube. Ho combattuto quell’impulso per anni, e per una ragione ben precisa: volevo tenere a freno il mio ego. Si è trattato, sin da principio, di una scelta deliberata e ben ponderata, cui ho tenuto fede per oltre dieci anni. In cuor mio mi dicevo, tanto a diciassette anni quanto a venticinque, che mettersi sui social sarebbe stato un contraddire i miei personali principi, fra cui il silenzio, la ponderatezza di pensiero e la lentezza. Poi, però, alla fine ho ceduto e mi sono contraddetto, per questioni che non ho intenzione di spiegare in questa sede. Nel 2022 ho aperto quel canale YouTube, e ho avuto la (s)fortuna di sentirmi dire, di tanto in tanto, “bravo”. Da poche, pochissime persone; ma qui non si tratta di una questione numerica. Nei mesi successivi ho cominciato a fare la cosa più sbagliata, vale a dire chiedermi come sarebbe andata se avessi aperto quel canale YouTube nel 2011 seguendo il mio primo impulso, quando ero ancora un ragazzino e la piattaforma sfornita: forse avrei conosciuto più persone, forse mi si sarebbero spalancate molte porte, anche dal punto di vista lavorativo e da quello privato. Continuando a contraddire il mio modo di pensare (o forse, in realtà, rivelandone un lato che ignoravo), ogni tanto ho anche fantasticato su quanti iscritti avrebbe il mio canale a quest’ora. Nonostante fosse una fantasia che provavo a rifuggire, puntualmente quel pensiero era lì, pronto a tornare. La tirannia del numero non si sconfigge, e persino il dio cristiano sapeva che infliggere alle sue creature quaranta giorni di diluvio era una punizione maggiore che impartirgliene dieci o venti. La consapevolezza si è trasformata in rimpianto: se avessi cominciato prima, a questo punto avrei X iscritti. X iscritti avrebbe potuto dire Y opportunità lavorative, oltre a stima e ammirazione da parte di molti colleghi e persone (per non dire dell’odio). Oggi, invece, con le piattaforme così sature e con il fatto che siamo molto più adusi alle dinamiche dei social network, crescere e affermarsi è diverso rispetto a dieci anni fa, forse più difficile per una mera questione di saturazione: gli influencer di oggi erano i ragazzini insoddisfatti o un po’ estroversi di ieri, mentre i ragazzini insoddisfatti e un po' estroversi di oggi, dell’influencer, possono ambire a essere soltanto una cosa: il pubblico.2 E lo è, più difficile affermarsi oggi rispetto a ieri, a maggior ragione per una persona che ha provato a farlo a ventotto anni e non a diciassette. È un mondo, quello dei social, in cui in alcuni contesti rischi di essere già vecchio se inizi a venticinque anni, figuriamoci a quasi trenta.
Ogni tanto, però, ripenso a una cosa fondamentale: che io, per oltre un decennio, ho volutamente rifuggito l’idea di mettermi a produrre in modo attivo sui social. In quei momenti ricordo le ragioni per cui ho praticato l’abdicazione volontaria — tenere a freno l’ego, rifiutare il consesso, defilarsi e guardare da lontano — ed è probabile che c’entri qualcosa il fatto che mi accettassi molto più a venti o ventidue anni di quanto non mi accetti ora a ventinove. Se dovessi azzardare nell’improbabile tentativo di giudicarmi da fuori, direi di essere stato un ventenne migliore del quasi trentenne che sono. Reputo il caricare video su internet e “dire la mia”, anche solo per un numero esiguo di persone, la più grande dimostrazione di debolezza della mia vita, un dissimulato antropocentrismo di bassa lega. Ho tradito il silenzio. Per quanto mi riguarda non si tratta soltanto di debolezza, ma di vera e propria arroganza, supponenza se vogliamo. Quanto può essere piena di sé una persona davvero convinta di avere qualcosa di originale da dire? Un tentativo così disperato di provare a contare qualcosa mi ricorda i festeggiamenti di compleanno, specie quelli sbandierati ai quattro venti. Dopo tutto, cosa si festeggia nel giorno del proprio compleanno se non il fatto (qui leggi l’illusione) che la Terra sia tornata nell'esatto punto in cui si trovava quando noi siamo nati? Cosa, di più egocentrico, che bearsi perché il moto del pianeta ci ha ricondotto in quell’esatto luogo che, festeggiando, quasi vorremmo ci appartenesse di diritto? Non fosse che questa illusione si spezza sotto il peso del moto reale dei corpi celesti, che non ripetono mai la loro precedente posizione ma che, inglobati in sistemi planetari così come la Terra, ancorata al sistema solare, lega il proprio moto alla sua stella tanto quanto la sua stella lega il proprio a quello della sua galassia, non saranno mai due volte nel medesimo punto in tutta la storia della loro esistenza.
Quando avevo appena vent’anni ed ero ancora abbastanza ingenuo da credere di poter fare qualcosa di buono, di tanto in tanto avevo la cattiva abitudine di inventare parole nuove per sensazioni, situazioni o fenomeni di cui non conoscevo il nome. Una di queste era pansiopia, un bruttissimo neologismo che al tempo trovavo più efficace del (per me) altrettanto brutto e inefficace filosofia. Appassionato com’ero dell’etimo delle parole, mi ero costruito questo neologismo fondendo le parole greche pan, tutto, e siopé, silenzio. Lo trovavo, in termini di significato profondo, l’equivalente 1:1 della parola filosofia, ma più adatto di quest'ultima perché meno esposto ai fraintendimenti, e quindi più in linea con un utilizzo risolutivo del linguaggio, unico uso che ne sia davvero degno. La cosa più nobile che si possa fare, ritenevo, è mantenere il silenzio, un atteggiamento che tradiamo ogni istante della nostra vita. Dal momento che quella del silenzio, del non esprimere mai opinioni e del fare di tutto per evitare di provare alcunché è una postura impossibile da assumere, ritenevo che fosse quantomeno utile contingentare questo atteggiamento a quanti più aspetti pratici della vita mi fosse possibile, compresi i social.
Dopo qualche anno eccomi qui, a tradire e ritradire quella che ritenevo una regola di condotta fondamentale della mia vita. Le ragioni per cui l’ho fatto sono tante, ma nessuna sufficiente al punto da diventare una valida giustificazione. Sono un incoerente, un uomo piccolo piccolo. Perché se è vero, come voleva Amleto, che il resto è silenzio, ho sempre vissuto cercando di adattarmi alla regola secondo cui anche ciò che non appartiene a quel “resto” possa esserlo, silenzio, e che è saggio perseguirlo il più possibile.
Non ho una conclusione particolare, se non quella di rimandare il pensiero a quell’esperimento per assurdo, con una piccola aggiunta: cosa accadrebbe se crescessi sui social, se ne facessi il mio lavoro, se fossi accettato e apprezzato? E cosa dopo, se i social dovessero scomparire come svegliandomi da un bizzarro sogno? Da dove trarrebbe appagamento il mio ego, un ego ormai sempre più compromesso — anche fisiologicamente, a causa dei tassi di dopamina che vogliono io abbia sempre di più? A chi mi rivolgerei? Se tornasse indietro di circa un paio d’anni, al momento in cui ha deciso di caricare un video su YouTube, l’Andrea di adesso consiglierebbe al se stesso di allora di non farlo. Eppure sono un incoerente, dicevo, e un uomo piccolo piccolo; e quindi ogni tanto anche questo pensiero si rivela inconsistente, e mi compiaccio invece di averlo fatto. Perché la realtà è una sola: che io l’ho fatto. E se un giorno, assieme ai social, dovesse per ipotesi svanire tutta la memoria digitale del mondo, a svanire sarebbe per fortuna anche quello che ho fatto io. Ma si tratta di un’eventualità che prima o poi si verificherà, e di questo ne abbiamo l’indubitabile certezza.
Non ho una conclusione, dicevo, ma mi tornano in mente, senza una vera ragione fondata, le parole di Giorgio Gaber in Le nostre serate: “Ti passo a prendere. Cosa facciamo? Che film vediamo? No, l’ho già visto. Tutto previsto.”
Questo “ci” si riferisce a tutte le persone che lavorano e/o sono presenti sui social, compreso ovviamente il sottoscritto. Per capirci, l'attore di teatro o il professore di chimica continuerebbero a trovare gratificazione dalla loro attività, mentre il personaggio pubblico presente principalmente sui social dovrebbe trovare altre soluzioni.
Poi va da sé che chiunque può ambire a raggiungere certi risultati, ma le varie piattaforme come YouTube, Twitch, Instagram e compagnia cantante hanno ormai i loro Pippo Baudo, i Mike Bongiorno e i Fabio Fazio, alfieri del mezzo che hanno conquistato il loro trono e che lo conserveranno per decenni.