Perché Millennium Actress è uno dei film più importanti del XXI secolo
Satoshi Kon e il cinema del secolo scorso
Nel 2010, la rivista Sight & Sound pubblica una lista di quelli che essa ritiene i 30 migliori film del XXI secolo sino a quel punto. La cosa che stupisce della lista – di una rivista comunque molto autorevole in materia – è la presenza di un solo film d’animazione, La città incantata, un film difficile da escludere in qualsiasi classifica (anche ristretta) dei film più importanti di sempre. Nel 2016, la BBC replica l’operazione, ma questa volta estendendo la lista a 100 titoli, accollandosi pure l’onere di classificarli dalla prima alla centesima posizione. In questo caso i film d’animazione sono ben quattro (La città incantata in altissimo, al quarto posto, mentre gli altri sono WALL•E, Inside Out e Ratatouille, tutti targati Pixar). Qualche anno dopo, nel 2020, è il turno di Empire, altra rivista autorevole in fatto di cinema: top 100, e anche questa volta i film animati sono quattro (di cui uno, Paddington 2, in tecnica mista).
Posto che stilare classifiche1 sia sempre una presa di posizione opinabile e parziale, è interessante notare come ancora oggi, dopo che già nel XVII secolo, nel tentativo di simulare il movimento, si giocava con la lanterna magica per proiettare immagini disegnate; dopo più di 130 anni da quando i Lumière sperimentavano e inventavano i primi proiettori, e quando cioè l’illusione del movimento per la prima volta non era più data da immagini create, come in precedenza con strumenti come il fenachistoscopio, ma da immagini riprodotte; dopo che Méliès colorava alcune delle sue pellicole fotogramma per fotogramma, e si inventava i primi “effetti speciali”; dopo che il mezzo è diventato narrativo, grazie al montaggio e al lavoro di Griffith; dopo l’incursione dell’enfant prodige Orson Welles, che capisce come il vero detentore del valore espressivo di un film hollywoodiano sia il regista e non più il produttore; dopo che la cinepresa diventa affilata come la penna stilografica, secondo il volere di Alexandre Astruc e della sua camera-stylo, con tutto ciò che ne consegue dal punto di vista e tecnologico e di messa in scena; dopo che i canoni cinematografici si sono solidificati e che la letteratura ha consolidato il linguaggio, aiutando a codificarlo; dopo che, nel tentativo di rinnovare il mezzo, molti autori hanno fatto cortocircuitare il linguaggio cinematografico, arricchendolo poi di nuove prerogative e prospettive; dopo, persino, che il cinecomic ha provato a dare una accezione alternativa al ruolo della sala cinematografica come nuovo tempio della serialità: ecco, dopo tutto ciò, è incredibile che il cinema animato soffra ancora di molte forme di ghettizzazione. Posto che alcune delle ragioni di questa ghettizzazione siano imputabili all’industria animata (o a parti consistenti di essa), non è questa la cosa che mi interessa delle liste prese in esame. La cosa che mi stupisce è che in nessuno di questi casi sia presente neppure uno dei lavori di Satoshi Kon usciti dopo il 20002. Ripetiamo che stilare classifiche è un mestiere infame e spesso le riviste lo fanno più per gioco e per generare discussione, ma neppure nel caso di Sight & Sound – che ambisce a stilare una lista (e non una classifica) che si basi su criteri di sintesi e onnicomprensività del tutto estranei a logiche commerciali – il nome di Kon compare anche solo per sbaglio. Satoshi Kon è senza dubbio uno dei giganti della storia del cinema, e il suo lavoro merita di stare al pari, per influenza e peso specifico, di qualsiasi altro grande nome possa balenare in mente a un amante di cinema. Senza esclusione alcuna.
Se qualcuno potrebbe indicare Paprika come il lascito testamentario del cinema di Kon, o Paranoia Agent come la summa delle sue ambizioni da autore, c’è però un altro dei suoi film che andrebbe rivalutato per il ruolo che gioca all’interno della sua opera, certo, ma anche come punto d’arrivo per la Storia del cinema e in generale del cinema come mezzo d’espressione. Mi riferisco a Millennium Actress, una pellicola che meriterebbe di stare al pari di qualsiasi altra pietra miliare del cinema degli ultimi venticinque anni (almeno), per portata (meta)cinematografica e per virtù espressive. Ma per quali ragioni?
IL CINEMA SECONDO SATOSHI KON
Il cinema di Satoshi Kon si basa sulla tensione irrisolta e irrisolvibile tra le idee di finzione e realtà. Le visioni immaginifiche create dalla sua animazione offrono una serie di altari e contraltari attorno ai quali si sviluppano più piani di esistenza (e quindi di lettura), dove l’obiettivo che deve porsi lo spettatore è la fruizione dell’immagine in se stessa, e non la ricerca definitoria di un significato. Nel cinema di Kon, l’immagine vale più di ogni messaggio di superficie, perché essa semplicemente è il messaggio ed è il portato maggiore del significato. Ciò che nel suo cinema sta alla superficie, ciò che, per così dire, è proiettato sullo schermo, è solo la porta d’accesso al suo mondo caleidoscopico, che alla buona maniera del Videodrome di Cronenberg buca lo schermo e vi scava, tentando un’incursione dentro di esso, alla ricerca delle immagini più recondite che vi si nascondono. L’abisso è l’oggetto della ricerca di Kon. Dal punto di vista cinematografico, esso è il luogo in cui risiede il compito giocato dall’immagine: Paprika salta dentro lo schermo e dentro i quadri, perché lo statuto fondamentale dell’immagine non è mai fisso ma variabile, e se in sala la pellicola è proiettata sullo schermo, ciò che vediamo in televisione sta sempre dietro o dentro di essa; e la tela del dipinto diventa l’immagine quando il pittore ci pennella sopra, tanto che il peso e la densità delle tempere spesso alterano e increspano la superficie perfettamente piana della tela. Scavare (o scovare) quell’abisso è il gioco al quale si propone di giocare Kon come autore e come visionario, perché l’abisso e la tensione irrisolta dell’immagine è ciò dal quale egli attinge tutti i suoi spunti visivi.
Dal punto di vista narrativo, l’abisso è invece il piano di confronto della collettività: ciò che si propone di raccontare Satoshi Kon non è mai la storia di questo o quel personaggio, ma della relazione con gli altri e come essa ingeneri volizioni e desideri non più private ma, appunto, collettive3. La psicologia dell’individuo è un concetto che si fonde e poi si confonde con quella degli altri, con la realtà nella quale essa è calata, sino a quando è impossibile stabilire ciò che si desidera perché guidato da una vera pedagogia del desiderio privato e quando perché indotta, incanalata dalle tensioni collettive alle quali siamo costantemente sottoposti. Non a caso, dal punto di vista espressivo Kon identifica due elementi che lo aiutano a giocare e creare un set di idee visive che si rivelano il luogo perfetto per esprimere questo concetto fondamentale: il sogno e internet4.
Sogno e internet sono due declinazioni della stessa idea di fondo, due luoghi egualmente abitati dall’individuo, nella ricerca costante di ciò che possa definirci, e che finisce per definire la nostra persona per spazi negativi, attraverso ciò che non siamo ma diventiamo grazie al confronto/scontro con gli altri. È per questa ragione che il cinema di Kon offre sempre punti di vista molteplici: Mima vive almeno due vite, e la sua affermazione come individuo passa attraverso il modo in cui viene giudicata (e quindi affermata) dai fan; in Tokyo Godfathers, nonostante il tono sia più scanzonato, l’affermazione di se stessi passa attraverso l’aiuto reciproco e il darsi man forte a vicenda dei protagonisti, senza i quali non esisterebbe un vero e proprio motore narrativo; in Paprika l’ambizione del sogno è quella di essere sogno della collettività, e come tale diventare nuova realtà, il sostrato da cui dipana la psicologia del singolo; in Paranoia Agent, a essere collettivo nello specifico non è il sogno ma la psicosi. Sogno e realtà, mondo di internet e mondo analogico, finzione e verità, sono i due estremi del contenuto del cinema di Kon, e l’elemento che tiene assieme questi due piani è lo strumento tecnico più indagato e approfondito da Kon: il cinema.
Il mezzo cinematografico è il tramite fra vero e immaginato, perché nulla meglio di esso riesce a operare così costantemente sul filo dell’ambiguità, ambiguità di ciò che è vero e ciò che finge solo di esserlo. Il cinema è il mezzo pretestuoso per eccellenza, anche già nella sua accezione originaria di pre-tessere, adornare, perché non offre soluzioni ma caleidoscopi, grazie ai quali ci è possibile vedere le cose sotto una nuova, coloratissima luce. E la macchina da presa – da Kon solo simulata in quanto autore di film d’animazione – è lo strumento perfetto al servizio di un cinema come il suo che, avendo come oggetto lo statuto psicologico dell’individuo, lo mette in scena soltanto attraverso i numerosi punti di vista che solo la macchina da presa, appunto, può simulare contemporaneamente. Cinema, sogno e realtà sono tre rette che trovano un punto d’incrocio nell’opera di Kon, ma se nei film fino a ora analizzati tutto ciò è il presupposto grazie al quale ci è possibile espandere e rappresentare le esigenze della collettività, è solo con Millennium Actress che Kon fa un lavoro di sintesi cinematografica, “riportando la chiesa al centro del villaggio”, come dicono i francesi.
L’ATTRICE DEL MILLENNIO (SBAGLIATO)
Il cinema di Kon si caratterizza dalla ricerca costante di un immaginario unico, teso sempre a rinnovarsi grazie a un influsso costante di immagini. Kon trae ispirazione da ogni elemento della modernità possa essere considerato un generatore di idee visive: internet, cinema, televisione, letteratura, pittura, fumetto, musica. Sarà poi suo lavoro ricomporre il proprio puzzle personale, dal quale a fuoriuscirne è un immaginario unico, proteso contemporaneamente verso il tradizionale e l’avanguardistico. Ma se il concetto di immaginario è uno dei più importanti per capire il cinema di Kon, esso non può essere compreso se non viene messo in relazione col valore dell’immaginazione pura. Se film come Paprika o Perfect Blue scandagliano un immaginario onirico o paranoico che, come detto, conseguono da una analisi collettiva della psiche, la conseguenza è che l’immaginazione come valore puro che Kon ambisce ad approfondire viene depotenziato, perché asservito a logiche esterne ed eterodirette. Soltanto con Millennium Actress Kon si propone di analizzare qual è il valore più puro dell’immaginazione come facoltà individuale, raccontando la storia di un’attrice ormai ritiratasi dalle scene che non cerca risposte nel caos là fuori, ma prova a scovarle dal di dentro. E per fare ciò, Kon non poteva che chiamare in causa direttamente il mezzo principe, il cinema.
In Millennium Actress tutti gli elementi (e soprattutto l’architettura metanarrativa e metacinematografica del film) confluiscono in modo tale da assumere un punto di vista preciso, quello di Chiyoko. Anche gli altri due protagonisti del film sono solo sparring partners, e i loro desideri privati sono ruscelli che confluiscono nel fiume in piena Chiyoko, come nel caso dell’ispettore Genya, la cui parabola narrativa all’interno del film vive di luce riflessa rispetto all’attrice del millennio; o, nel caso del cameraman Kyoji, si profila come disinteresse scanzonato, ma non come opposizione o contrasto nei confronti di Chiyoko. Il traino narrativo di Millennium Actress è il guardare avanti, e Kon lo mette in atto assumendo un preciso punto di vista e andando a punzecchiare lo spettatore in modo da stimolare l’empatia nei confronti della sua protagonista, laddove negli altri suoi lavori era la tensione irrisolvibile tra le psicologie dei personaggi a dominare.
E qui entra in gioco l’architettura metacinematografica del film. Millennium Actress è storia individuale che si fa (perché è) Storia del Giappone, mentre gli altri film di Kon sviluppano sempre un discorso attorno alla storia della collettività. Non a caso, il film è l’unico all’interno dell’opera di Kon a trattare il tema del passato, là dove il resto della sua filmografia è ambientata nel presente o in un ipotetico futuro (come avrebbe dovuto essere anche per Dreaming Machine, rimasto incompiuto). Millennium Actress fa un lavoro di sintesi, perché ricolloca le pulsioni del collettivo e le rimette al servizio di quelle private. Le conseguenze sono evidenti anche sul piano espressivo: alla presenza costante del digitale e del tecnologico rintracciabile in tutta la sua produzione, si sostituisce qui una presenza vivida e reale del cinema, che per Kon resta evidentemente un mezzo analogico, così com’è nato: in tutti i lavori di Kon sono presenti strumenti digitali come cellulari, dispositivi elettronici, pagine internet, aggeggi per accedere al reame dei sogni, mentre in Millennium Actress è presente soltanto la macchina del cameraman. Questo perché Kon è conscio che il cinematografo sia in un certo senso uno strumento d’antan, e in particolare il mezzo espressivo del XX secolo. L’attrice del millennio, Chiyoko, è però l’attrice di un secolo, il ventesimo, quello del cinema ormai morente, che come avrebbe detto Norma Desmond ormai “è diventato piccolo”, con riferimento all’arrivo della televisione.
E proprio come nel film, dove Chiyoko manca l’obiettivo sempre per un soffio (ovvero il ritrovare l’uomo amato), anche la pellicola di Kon arriva appena fuori tempo massimo: il film esce nelle sale nel 2001, subito dopo che si è concluso il secolo del cinematografo, quel XX secolo che ormai sta lasciando posto ad altri mezzi, dapprima sfumando in essi attraverso la nuova offerta tecnologica (la prima proiezione di digitale in Europa risale proprio al 2000), e poi andando a diventare solo uno dei tanti mezzi di fruizione di immagini, in quel dialogo così distorto e ambiguo tra immaginario e immaginazione di cui parlavamo sopra. Kon sa che la parentesi del cinema come mezzo espressivo più importante per un autore sta per finire, e che il nuovo millennio ne sta per aprire un’altra.
Chiyoko vive la sua parabola con forte nostalgia, un sentimento che però le viene rievocato dall’incursione nella sua vita del passato. E la sua storia diventa allora il tentativo di analizzarlo, quel passato, riviverlo, e così facendo raccontare il passato di una terra, il suo Giappone, che però è visto e ripercorso attraverso le lenti del cinema, quel cinema caleidoscopico che Kon però non riproduce – non si tratta di live-action – ma crea, grazie all’animazione. Il pretesto della storia di Chiyoko offre a Kon lo spunto perfetto per creare allora la sua storia del cinema e la sua storia del Giappone del XX secolo, due storie che vanno di pari passo perché ai suoi occhi sono la stessa cosa. E Kon muove Chiyoko nel tempo e nello spazio attraverso i due elementi più antichi (e quindi più grezzi, ma anche più puri e con maggiore potenziale) del cinema: il movimento e il montaggio.
Kon utilizza movimento e montaggio con lo stesso piglio di un regista di live-action, ma il fatto di usare questi strumenti al servizio di una tecnica creativa e non riproduttiva come l’animazione gli fa assumere una forza nuova, a tratti inedita. Per fare un esempio di montaggio, basta pensare a come Kon ricorra al match cut per saltare nel tempo. Il match cut è essenzialmente di tre tipi: sonoro, quando la continuità fra due scene raccordate è data appunto da una relazione sonora; di soggetto, quando si uniscono due oggetti o persone accomunate nell’aspetto; e di movimento, quando la macchina da presa prosegue in una scena l’azione cominciata in quella precedente. Kon predilige, in Millennium Actress, questi ultimi due tipi di match cut, e vi ricorre spesso. L’esempio migliore è dato quando Kon addirittura li unisce, nella breve scena in cui la vecchia Chiyoko, ricordando un evento del passato, si “trasforma” nella se stessa giovane grazie a un movimento verso destra, con una sorta di finto match cut di movimento e di soggetto, e poi si alza in piedi, e con un match cut di movimento viene proiettata in un altro momento del suo passato. Kon ricorre spesso a questi espedienti per far diventare il suo cinema lo strumento perfetto per scardinare i limiti imposti dal tempo e dallo spazio, e piegarli al suo volere. Grazie alle sue scelte di montaggio, la macchina da presa “ringiovanisce” Chiyoko in un attimo e la fa tornare al suo passato, che è di nuovo il suo presente5.
Un esempio di movimento è invece dato dalla scena in cui Chiyoko è a cavallo, e lanciata in corsa vaga fra varie epoche storiche, ripercorrendo le parti che ha recitato in alcuni dei suoi film (lo trovate a 7:05 del mio video qui sopra). Quello che ci propone qui Kon è un modo di presentare una storia del Giappone alternativa, verrebbe da dire quasi alterata, come è alterata ogni cosa che il cinema racconta. E Kon estremizza questa idea, proponendo visivamente un breve racconto nel racconto fatto di immagini pittoriche più che cinematografiche, dove i fiori di ciliegio assumono la bidimensionalità del dipinto, o quasi del prop tipico del teatro giapponese, a cui Kon pare accennare nella messa in scena. E in questa breve sequenza, infatti, la Storia del Giappone per un istante non è più solo la storia del secolo XX, ma dell’intero millennio6. Kon opera volutamente una ulteriore distorsione del racconto, rendendo il movimento verso destra di Chiyoko come lo srotolarsi di una pergamena, che piano piano ne rivela il contenuto. E il contenuto è Chiyoko stessa, le parti che ha interpretato nei suoi film, la storia del cinema giapponese, la Storia del Giappone.
Millennium Actress è uno dei film più notevoli e più ingiustamente sottostimati della storia del XXI secolo (e non solo) perché mette il punto finale su una storia, quella del cinema stesso, l’oggetto magico del contenzioso dei creativi del XX secolo; lo srotola e lo riavvolge, e non poteva che farlo con la tecnica che ha dato il via al tentativo umano di creare l’illusione del movimento, quando secoli fa giocavamo ancora con la lanterna magica: l’animazione. E non poteva che essere Satoshi Kon a offrircelo, uno dei pochi autori a usare l’animazione come enorme compendio di tutto ciò che il cinema può fare. E la sua attrice del millennio, l’attrice di un secolo appena concluso, non può che avere la storia più vecchia di tutte, una storia di cinema e una storia d’amore, che sono la stessa cosa.
Il cinema di Satoshi Kon a un certo punto si chiude, mentre il mondo va avanti. Ma la millennium actress il presente l’ha schivato d’un soffio: si ritira a vita privata – ed è una scelta che qualcuno ha messo in pratica anche nella realtà, come per esempio la cantante Mina – là dove il nuovo mondo, quello digitale, non può raggiungerla. Il passato, però, è sempre lì per noi: e quando riaffiora, a riaffiorare è anche la vena salvifica che Kon attribuisce al cinema, il mezzo della produzione espressiva per eccellenza, dove si attua la sintesi tra sogno e reale, tra immaginario e immaginazione.
Grazie Millennium Actress Satoshi Kon ci dice che il sogno, la finzione e dunque il cinema non sono più il luogo dove scappare, ma in cui immergersi per cercare.
Con il cuore colmo di gratitudine per tutto ciò che di buono hai dato a questo mondo e a me, io rubo le tue parole e smetto di scrivere il mio articolo. Sayonara, Chiyoko Fujiwara. Sayonara, Satoshi Kon.
Per chi fosse interessato, lascio qui la classifica della BBC, qui quella di Empire e qui la lista di Sight & Sound. Andate e divertitevi a scoprire il vostro punteggio.
Non che nelle liste pre-2000 la situazione migliori.
M. Ghilardi, L’infinita trama del reale. Immaginario, sogno, verità nell’estetica di Satoshi Kon, in Satoshi Kon. Il cinema visionario di uno dei più eccentrici protagonisti dell’animazione giapponese, Mimesis Cinema, 2021.
Ibidem.
In brevissimo tempo, infatti, la sequenza passa dalla messa in scena, nell’ordine, di case rurali a una battaglia fatta prima di katane, poi armi da fuoco, per arrivare a un carro trainato, un treno, delle abitazioni moderne e una bicicletta, seguendo il corso del progresso tecnologico.