Qualche giorno fa sono stato a trovare un amico a un centinaio di chilometri a nord da casa mia. Dal momento che avevo soltanto mezza giornata a disposizione, abbiamo passato il tempo a parlare e tentare di chiudere vecchi discorsi che per mesi avevamo lasciato sospesi. Forse inconsciamente, abbiamo entrambi approfittato del tempo trascorso dall’ultima volta per far montare l’esprit de l’escalier e dotarci di una risposta pronta, in modo da terminare tutte le nostre conversazioni lasciate a metà; è andata poi a finire in un altro modo, e a ogni discorso in sospeso se ne assommava di volta in volta uno nuovo, la cui miccia veniva innescata chissà come e a cui l’interlocutore non poteva fare a meno di rispondere, come a una provocazione che lo pungesse nel vivo. È tipico, quando si ha poco tempo a disposizione, fare discorsi inconcludenti che vagano a destra e a sinistra, ma mi ci è voluto qualche giorno per realizzare che il fatto straordinario di quell’evento ordinario stava nella cornice della situazione: durante la mia permanenza non abbiamo fatto altro che camminare su e giù per la città, prendendoci qualche breve pausa in un caffè o in un locale e, a completare un quadro già di per sé traballante, il tempo non ci ha dato tregua: sono arrivato in città col sole e una trentina di gradi, ma ci è voluto poco perché cominciasse a piovere, per poi placarsi, far uscire il sole e rannuvolarsi di nuovo.
Trattandosi di una città d’origine romana ed essendo i nostri discorsi così estemporanei, era come star sospesi in un tempo qualunque in un posto qualsiasi, come in una pausa fra ieri e domani.
Prima di raggiungerlo mi sono però assicurato che in città ci fossero una bella libreria e una bella fumetteria — avevo voglia di comprar qualcosa come stimolo contro la mia inedia estiva — e così tra un discorso e l’altro lui mi ha condotto nella fumetteria più fornita del posto. Sarà che mi piace ripensare a certi episodi e a posteriori rielaborarli in chiave narrativa, come piccoli racconti privi di significato ma di per sé significativi; o forse sarà perché ho bisogno di fornire una cornice ancora più adeguata al mio traballante quadro, ma sta di fatto che al momento di acquistare il mio volume il titolare ha rifiutato il bancomat e io, sprovvisto di contante, sono stato costretto a una forma di pagamento analogica. Per farvi capire quanto altalenanti e vaghi fossero i nostri discorsi — ed era, in quel momento, soltanto mezzogiorno — siamo usciti dalla fumetteria per recarci a uno sportello automatico parlando della maniera in cui è scritto il personaggio di Gus Fring in Better Call Saul e siamo tornati cinque minuti dopo discutendo della rivalità fra Djokovic e Federer.
Alla fine, però, sono riuscito a comprare il mio volume e, forse, presentendo che l’atmosfera della giornata fosse adatta all’occasione, sapevo già da prima di acquistare che la mia scelta sarebbe ricaduta su un autore a me caro, Jirō Taniguchi.
Il volume in questione era Un cielo radioso, che ho letto nei giorni successivi e che ho apprezzato il giusto. Siccome negli ultimi mesi mi era capitato di rileggere L’uomo che cammina a distanza di una decina d’anni dalla prima volta, ho deciso di seguire quella scia e dopo pochi giorni ho comprato un altro volume dello stesso autore, Furari. Sulle orme del vento.
Durante la lettura il pensiero tornava costantemente all’Uomo che cammina, di cui Furari riprende il filo logico. Eppure questo secondo racconto possiede notevoli differenze rispetto all’opera più famosa di Taniguchi, e si tratta di differenze di prosa e senso ritmico che posseggono un fascino unico. Sarà che il tempismo è una brutta bestia e che, proprio nei due giorni in cui ho letto il racconto ho avuto modo di sentire Igort — che Taniguchi ha conosciuto e la cui sensibilità gli era ben nota — parlare dell’autore giapponese in un suo video appena pubblicato su YouTube, il punto è che leggere Furari mi ha fatto capire molto sul Taniguchi che non stavo leggendo in quel momento. Se è vero, come diceva Guillermo del Toro, che ogni autore fa metaforicamente soltanto un’opera durante tutta la sua carriera, leggere Furari mi ha permesso di rileggere fra le righe e i balloon de L’uomo che cammina. Il rapporto — probabile o meno che sia — fra due testi verte sempre sulle loro differenze, e fra le due opere di Taniguchi ve ne sono numerose. Non voglio dilungarmi, né desidero che venga fuori un articolo fiume; piuttosto preferisco accennare rapidamente alcune delle differenze fra L’uomo che cammina e Furari, sedimentate negli interstizi delle loro affinità. Andiamo al dunque.
Ne L’uomo che cammina il protagonista potrebbe essere descritto come una mina vagante disinnescata. Gira per il quartiere, potrebbe combinare di tutto, e invece si limita a osservare e a contemplare ammirato. Se c’è qualcosa che non conosce, ne approfitta per carpire l’informazione e trovare poi risposta in solitaria, magari racchiusa fra i tomi di una biblioteca. La sua presenza è minimale, proprio come minimale è tutto l’impianto metrico e stilistico: pochi, anzi pochissimi balloon, pochi stimoli visivi cui corrispondono però tantissimi stimoli emotivi. L’uomo che cammina è avulso dal contesto: cerca sempre di defilarsi, non interviene quasi mai nelle questioni che riguardano quel che c’è attorno a sé, e si limita a contemplare il mondo e il suo incessante mutare, in perfetto accordo con i principi del mono no aware.
In Furari, invece, il protagonista ha una mansione ben precisa: l’uomo è l’ormai pensionato Tadataka Inō, noto cartografo cui si deve la mappatura dell’intero Giappone. Ai piedi del monte Fuji che fa da sfondo al paesaggio, l’uomo trascorre le sue giornate in maniera simile all’innominato uomo che cammina, ma il suo vagare è compartecipe del mondo: non si limita a osservare e contemplare, al contrario interviene in maniera attiva ogni volta che gli è consentito. La sua mansione e la maniera rigorosa in cui questi la conduce — contando metodicamente i propri passi per mappare Edo, la Tokyo premoderna — gli impedisce di essere avulso dal contesto; prima di tutto perché, a differenza del piccolo quartiere de L’uomo che cammina, Edo è un grande e trafficato snodo commerciale e burocratico, ma soprattutto perché Inō è un uomo di scienza: a ogni ipotesi prova a far seguire una verifica, e questo vale tanto per la sua mansione quanto per quello che accade attorno a sé.
Se l’uomo che cammina si limita alla contemplazione pura, per Tadataka Inō ogni mono no aware si traduce in un satori, uno sfinimento estatico dove pensiero e azione, teoria e conoscenza, combaciano fra di loro. Taniguchi ne è conscio, e usa due espedienti metrici e visivi per completare l’opera.
Il primo è proprio la maniera in cui viene descritto ogni satori del protagonista: ognuno di questi momenti combacia con la trasmigrazione dello spirito di Tadataka in quello di un animale, che gli fa vivere un’altra prospettiva e un altro punto di vista sulla città — cosa di vitale importanza per lui, cartografo hobbista che sta cercando di raggiungere un obiettivo così ambizioso, mappare la città grazie all’adozione di un rigoroso metodo scientifico. La “trasformazione” in animale consente a Tadataka di vedere la città dall’alto, dalle profondità, dalla prospettiva dei tetti e da quella dei cunicoli. A trasformarsi è soltanto la mente del protagonista, che ha bisogno di provare un senso di vera partecipazione col mondo per giungere a una sua conoscenza pertinente. A differenza sua, l’uomo che cammina non indossa questo abito investigativo perché non possiede un obiettivo: si limita a godere del mondo, ma fra i due è quello meno limitato.
Il secondo espediente è l’uso dell’haiku. In ogni capitolo viene recitato un haiku, la cui presenza è contrassegnata dall’uso del corsivo, che Taniguchi spesso riprende dai grandi poeti della tradizione. L’haiku viene spesso pronunciato da un personaggio durante uno dei momenti topici del capitolo: approfittando di un evento, il personaggio si fa calzare la parte dell’attore e recita i suoi versi, che fanno da chiusa a quanto accaduto. Ma c’è una tavola in cui Taniguchi fa una cosa diversa, e propone un haiku “sotto mentite spoglie”. Si tratta di una tavola intera verso la fine del racconto, a seguito di un momento in cui comincia a scendere la neve. La compagna del protagonista osserva la neve che scende e pronuncia la sua battuta: “È proprio vero… è arrivato il freddo. Sta nevicando.”1 Non c’è nessuna virtù poetica nelle sue parole né la situazione lo imporrebbe, tant’è vero che Taniguchi non usa neppure il corsivo usato in precedenza per contrassegnare gli haiku. E proprio per questo è il componimento perfetto, l’haiku più efficace utilizzato da Taniguchi proprio perché non ripreso da un grande poeta e pronunciato involontariamente. Fa quello che l’haiku dovrebbe fare quando composto al suo meglio, si limita a constatare. Questo tipo di battuta è ricorrente in Taniguchi, e la sua produzione è costellata di linee di dialogo scandite da momenti in cui i personaggi si limitano a rimarcare l’ovvio: questa cosa è così. E ciò è particolarmente vero quando si tratta di osservazione e contemplazione della natura.
In questo breve passaggio di Furari l’ovvio diventa un componimento involontario, caratteristica che ne contrassegna la riuscita. Dal punto di vista stilistico l’haiku è perfetto per la prosa di Taniguchi, e in Furari il componimento si trasforma in una linea di dialogo.
Ho letto L’uomo che cammina, e poi ho letto Furari. Adesso li apprezzo entrambi.
Purtroppo non ho trovato una versione digitale della tavola da mostrarvi. Avete una scusa un più per leggere Furari.
Taniguchi, come altri autori profondamente zen per vocazione mi hanno sempre affascinato per il loro tentativo, non importa quanto consapevole, di esporre il paradosso tra il distacco della constatazione tipica della tradizione zen, e la naturale narrativizzazione dell’insignificante che ci caratterizza quasi evolutivamente. Se predichiamo il sarcasmo che riconosce il non senso e non cerca l’approvazione, perché poi scriviamo l’haiku che ne veicola, differisce e infine amplia il senso, di fatto ritardando una volta di più, lo svuotamento finale è il silenzio che ne segue?
Questo rimane per me il più grande limite e il più grande motivo di interesse dello zen come filosofia: che la sua comprensione implica il silenzio e che per comprenderlo non si può che continuare a parare, di fatto tradendolo. La cura e la dolcezza quasi paterna con cui Taniguchi riesce a suggerire tutto questo è il punto della sua poetica. Mai sbandierando il paradosso come sagacia logica, né mettendo alla berlina il sistema che su di esso si fonda. Lo espone, di nuovo, con quella dolcezza tipica del distacco (in questo Cristo e lo zen si somigliano). E questo bilico è il suo merito.