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lug 26, 2023Messo Mi piace da Andrea Tornese

Taniguchi, come altri autori profondamente zen per vocazione mi hanno sempre affascinato per il loro tentativo, non importa quanto consapevole, di esporre il paradosso tra il distacco della constatazione tipica della tradizione zen, e la naturale narrativizzazione dell’insignificante che ci caratterizza quasi evolutivamente. Se predichiamo il sarcasmo che riconosce il non senso e non cerca l’approvazione, perché poi scriviamo l’haiku che ne veicola, differisce e infine amplia il senso, di fatto ritardando una volta di più, lo svuotamento finale è il silenzio che ne segue?

Questo rimane per me il più grande limite e il più grande motivo di interesse dello zen come filosofia: che la sua comprensione implica il silenzio e che per comprenderlo non si può che continuare a parare, di fatto tradendolo. La cura e la dolcezza quasi paterna con cui Taniguchi riesce a suggerire tutto questo è il punto della sua poetica. Mai sbandierando il paradosso come sagacia logica, né mettendo alla berlina il sistema che su di esso si fonda. Lo espone, di nuovo, con quella dolcezza tipica del distacco (in questo Cristo e lo zen si somigliano). E questo bilico è il suo merito.

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